venerdì 14 novembre 2008

CITTA'TERRITORIO FESTIVAL _ Ferrara 08 _ Guido Martinotti, Città diffusa, costi e vantaggi

Mi sembra sia stato molto opportuno dedicare l’incipit del nostro discorso alla definizione dell’oggetto. Il linguaggio è importante e forse nessun oggetto come l’urbanesimo contemporaneo è soggetto agli “eidola fori”. La complessità e le crescenti dimensioni planetarie del fenomeno incoraggiano la retorica iperbolica (hype) dei bardi urbani. che, nel quadro della grande narrazione del fenomeno urbano contemporaneo, si colloca in maggioranza nella famiglia degli “apocalittici”, per richiamare una vecchia distinzione di Umberto Eco, aggiungendo poi che gli “integrati” in questo campo sono spesso anche i cantori della “growth machine”.Il fenomeno urbano sembra solleticare negli intellettuali una irrefrenabile propensione al bardismo e all’uso delle forti tinte. Cito senza l’autore – non mi interessano qui le notazioni personali, ma i testi,“Il fenomeno urbano contemporaneo è sospeso su tre disastri” e la “riflessione teologico-pastorale che guarda alla città con lo sguardo rivolto non solo alla “nuova Gerusalemme”, ma anche alla mitica Babele (Gn 11, Is 1, 21-26) – città dell’idolatria, dell’ingiustizia, della divisione – e alla biblica Ninive, nuovamente colpita da alcune pestilenze: quella della violenza, della corruzione”. Oppure “E siccome la città è diventata un insieme di frammenti sospesi in un equilibrio sociale instabile e precario, un magma mal unificato con infinite stratificazioni pronte a rovesciarsi l’una nell’alra (sic), l’incongruità deve essererimossa o esaltata per ricercare una pluridentità?” e ancora “… i principi di una contemporaneità basata sul nucleo dell’architettura e dell’arte attuali hanno votato la città a risplendere di un’immagine dal forte crepitio visivo” (tra l’altro il crepitio è una citazione nascosta.ndr) e via scoppiettando. Sarà forse inevitabile, perché le tendenze osservate di recente nei sistemi urbani della maggior parte delle economie avanzate stanno subendo una trasformazione profonda, le cui caratteristiche cominciano ora a essere tracciate con approssimazione, ma le cui conseguenze sono ben lontane dall’essere comprese. Ma questa comprensione non può giovarsi di termini sbagliati. Nel 1938, Louis Wirth scrisse un famoso articolo sull’American Journal of Sociology (Urbanism as a way of life) testo che influenzò enormemente le concezioni dell’urbanesimo contemporaneo, tra gli scienziati sociali, ma anche tra architetti e urban planners. Wirth postulò che le città potessero essere definite da tre variabili: la (size), la densità e, (correlativamente, aggiungo io) l’eterogeneità. Mezzo secolo dopo, a partire dagli ultimi decenni del secondo millennio, questi criteri non servono più a definire il fenomeno urbano, anche se nessuno finora è riuscito a proporre una interpretazione altrettanto essenziale. Le grandi città diminuiscono ovunque di popolazione e, a ben guardare, non si sa neppure tanto bene su che oggetto misurare la dimensione; la densità metropolitana si abbassa al punto che, negli Stati Uniti, la densità delle aree metropolitana è eguale alla densità totale di paesi come l’Italia; l’eterogeneità resta un importante elemento, ma si formano nuovi processi segregativi basati non più sulle classi sociali, ma su diverse popolazioni, particolarmente le popolazioni notturne e quelle diurne. Le città di tutto il mondo sono oggi investite da tre macroprocessi che stanno mutando profondamente la natura del fenomeno urbano: la recessione dei confini che trasforma entità chiaramente circoscrivibili in “terre sconfinate” di cui è difficile perfino definire limiti e dimensione; la nascita di NRP, Non Resident Populations, a partire dai pendolari che usano gli strumenti di mobilità per distribuire attività su territori ampi a bassa densità e, infine, i fenomeni legati alla diffusione dei media e della cultura di massa che contribuiscono a mutazioni profonde delle forme di governo e anche della rappresentazione condivisa della realtà sociale contribuendo al fenomeno della “doppia ermeneutica”. Come in tutti i periodi di mutazione strutturale profonda, il vecchio e il nuovo sono estremamente mescolati, nella realtà così come nelle menti di uomini e donne, ed è difficile scindere l’uno dall’altro. Risulta dunque possibile parlare di disurbanizzazione e vivere in città soffocate dal traffico, sentire parlare di città cablate e vedere fiorire imprese di trasporto di posta espressa che si servono di ragazzini in bici o in motocicletta, osservare grandi pezzi di terreno urbano sgomberati dalle industrie e sperimentare l’aumento dei costi urbani di insediamento e così via. Sarebbe ingenuo credere di poter delineare oggi una teoria completa capace di spiegare tutti questi cambiamenti, ma si dovrebbe per lo meno tentare di riformulare l’insieme di idee che abbiamo oggi circa il fenomeno urbano, senza però cedere all’uso manipolatorio delle parole e alle distorsioni dell’ideologia, che sogna improbabili “ritorni alla natura”, e manca di prendere atto della formazione di nuovi tipi di rapporti costituiti da reti “lasche” e “intermittenti” (incontro più spesso - un paio di volte l’anno- il mio collega Harvey di NYU, che il mio amico del cuore nelle medie che vive in un altro quartiere della mia città). E soprattutto è necessario ricostruire un apparato concettuale realistico senza cedere all’uso di termini evocativi quanto teoricamente vacui: i “non-luoghi”, termine che Augé ha copiato, puerilizzandolo, da Webber; la città infinita che comincia a Varese e finisce a Bergamo; la società liquida che Bauman propone sciogliendo in soluzione mediatica all’1% le idee di Castells di dieci anni prima, e via dicendo. Termini che acquistano immediata diffusione mediatica, perché a questo scopo sono pensati, confondendo le idee e interferendo con una comprensione dei fatti, perché anche nel mercato della trasmissione culturale vale la legge di Gresham. Invece è assolutamente necessario rinnovare la cassetta degli attrezzi dell’analisi urbana, come stanno facendo molti studiosi da Sassen a Sennett a Thrift e a Urry. Le dinamiche correnti intaccano, infatti, profondamente l'apparato cognitivo su cui è basata attualmente la conoscenza scientifica delle città. La maggior parte dei dati empirici relativi all’urbanizzazione proviene da fonti istituzionali, ma la proiezione dei modelli di organizzazione statuale sul territorio è sempre più ostacolata da quegli stessi cambiamenti che le statistiche ufficiali dovrebbero tenere sotto controllo; le difficoltà crescenti con cui si scontrano i censimenti, anche in società altamente organizzate come gli Stati Uniti, non possono essere considerate eventi marginali. Le funzioni cruciali della dinamica urbana corrente, come la crescente popolazione d’immigrati negli strati inferiori del mercato del lavoro, passano in gran parte inosservate dalle statistiche ufficiali. Lo stesso accade con i mercati in allargamento nelle grandi città, per esempio le economie illegali, o con i fenomeni più tradizionali dell’emarginazione sociale che assume attualmente nuove dimensioni: la dipendenza dalla droga, la marginalità della gioventù e il problema dei senzatetto. Riconcettualizzare tutto ciò è assolutamente necessario: molti degli strumenti intellettuali esistenti e utilizzati per descrivere il fenomeno urbano sono stati costruiti su una morfologia urbana profondamente diversa e quindi inappropriati per i nuovi modelli di rapporti sociali emersi nel tempo e nello spazio. L'ecologia sociale (che rimane, ciò nonostante, la fonte più notevole di conoscenza sugli stanziamenti umani) è basata, in entrambe le sue versioni (classica e contemporanea), sull'analisi di concorrenza fra i diversi gruppi umani per la conquista dello spazio vivente. Se è vero che nelle analisi ecologiche sociali molte funzioni sono ugualmente considerate, quella residenziale è di gran lunga la predominante e ne è prova lampante il fatto che la maggioranza delle statistiche sulle città è basata su modelli residenziali e su unità residenziali d'osservazione. D’altro canto, sembra evidente che la nuova forma di morfologia urbana sia per la maggior parte il prodotto della differenziazione progressiva di numerose popolazioni che gravitano intorno ai centri metropolitani: con la crescente mobilità della popolazione in termini di numeri, direzione, portata e frequenza, i rapporti stessi fra popolazione e territorio diventano altamente dinamici. Quindi l’insieme di concetti ecologici sociali che miravano alla ricostruzione delle strutture di disposizione spaziale è sottoposto a forti tensioni. Anche le analisi basate sulle classi sociali incontrano difficoltà ugualmente gravi. Osserviamo, infatti, i movimenti sociali diventare sempre più visibili sulla scena urbana, mentre le grandi masse di nuovi venuti e di Popolazioni Non Residenti, NRP, alterano la struttura sociale tradizionale. Parallelamente, i cambiamenti generali che si registrano nella struttura dell'economia mondiale incidono profondamente sui modelli prestabiliti delle diverse classi sociali, soprattutto nelle economie avanzate. La globalità tipica dell’economia mondiale rende molti dei concetti di analisi urbana obsoleti; le città sono state sempre concepite come unità più o meno isolate: comunità urbane o metropolitane all'interno di una struttura nazionale, pezzi di società che potrebbero, per così dire, essere isolate sperimentalmente dal resto per un’analisi sociale. Anche l'analisi sociologica dei sistemi urbani si è occupata principalmente, anche se non esclusivamente, di sistemi urbani nazionali o regionali. Tale è il caso, per esempio, della Legge di Zipf e di tutti gli altri studi basati su valutazioni in ordine di rango (rankorder): se prendiamo i comuni la “legge” (che non è legge più di quanto non lo sia la famosa “legge” di Bode che tanto imbarazzò il giovane Hegel) di Zipf ci dà per il nostro paese, nell’ordine decrescente, Roma, Milano, Napoli, con popolazioni più o meno nell’ordine 1, ½ , 1/3 . Ma se prendiamo la realtà metropolitana abbiamo una legge di Zipf che si applica, molto approssimativamente, solo a un ordine del tutto diverso: una “Milano” di 6 a 8 milioni (appunto, non sappiamo la “dimensione” a che entità si applichi e quindi vi è incertezza) e, in decrescendo, una “Napoli” di 3 a 5 milioni e una “Roma” che non cambia molto da comune ad area perché lo sviluppo metropolitano è avvenuto largamente entro i confini comunali. Oggi diventa sempre più difficile mantenere la finzione analitica di un sistema urbano nazionale entro cui opera la “legge di Zipf”, specialmente in zone geopolitiche come l’Europa, in cui la crescita di istituzioni sopranazionali ha liberato le singole città da legami nazionali, sottoponendole, per così dire, a una concorrenza in crescita per le risorse globali, come testimoniato dal numero crescente di club cittadini e lobby che si sono sviluppati rapidamente negli ultimi anni, e dall'interesse per il marketing urbano (vale a dire tecniche sviluppate per accrescere i vantaggi di posizione geografica - e più generalmente di amenità urbane - delle singole città sul piano internazionale). La città contemporanea, o per meglio dire, quell’insediamento senza confini (sconfinato, appunto, come dice, in buon italiano, uno studioso serio come Michele Sernini che conosce la nostra lingua, anticipando il concetto di “endless city” di Burdett e Sudjic e lasciando filosofi, matematici, letterati e innamorati il vocabolo hype di città infinita) che si è sviluppato attorno e lungo le assi del semis urbain europeo, è sostanzialmente fondata sulla mobilità e il consumo energetico e ma anche sullo scambio di informazioni in profonda e radicata sinergia. Come avviene in tutti i sistemi complessi non è certo che l’equilibrio del sistema avvenga in condizioni di massima utilità per tutte le sue componenti e, dopo un lungo periodo di esplosiva e quasi gioiosa diffusione della motorizzazione privata, che ha accompagnato lo sviluppo delle MUR, Mega Urban Regions, prima nelle economie avanzate e poi oggi in tutte le parti del mondo, si è ora, soprattutto nelle regioni più sviluppate, entrati in un’era di consapevolezza conservazionista, con lo studio e l’adozione di una ampia gamma di provvedimenti a diverso livello, nessuno dei quali, tuttavia, sembra in grado di fornire una risposta risolutiva, anche se l’insieme degli interventi, ma soprattutto l’apertura di una agenda, senza di che non è possibile pensare ad alcuna soluzione possibile, offrono buone possibilità. In questo quadro muta profondamente il ruolo della dimensione dei centri, sempre con le già espresse riserve sulla loro definizione: in passato, e per circa due secoli, la legge fondamentale dello sviluppo era semplice e chiara “più grande è un centro più rapidamente cresce”. Con gli ultimi decenni del xx secolo questa legge cessa di funzionare, si spopolano le grandi città e crescono i piccoli comuni, per effetto di una serie di processi, la tendenza si inverte, ma non può essere spiegata senza la forte interazione tra abitazione, lavoro e consumi, che plasmano la nuova forma fisica e sociale della città. Per concludere, l'avvento di nuove tecnologie nella comunicazione ha anche un effetto su alcuni concetti fondamentali di analisi urbana, come quello di Gemeinschaft, basato sui rapporti primari del gruppo. È evidente che i profeti dell'industria elettronica non sono poi così neutrali e hanno notevolmente sopravvalutato gli effetti reali della tecnologia d'informazione, anche se taluni di questi sono stati inevitabili e sempre più rilevabili. Purtroppo l’ideologia communitarian, con cui una grandissima parte dell’intellettualità italiana si identifica in modo stupefacentemente acritico, ha stabilito che il nostro paese sia sostanzialmente fatto da due o tre Milano (tendenzialmente yucky) e mille Rio Bo (sostanzialmente yummy). Non sorprende quindi che nel periodo in cui la dimensione metropolitana si stava affermando nel nostro paese con forza prorompente e governata, l’immagine pubblica sia stata coartata a interpretare i dati statistici come un improbabile, ma ideologicamente palatabile, ritorno a una campagna che, come dice Staffan Helmfrid, “I cittadini vorrebbero trovare nel paesaggio il prodotto di una società rurale che vive in armonia con se stessa e con la natura, immutabile e per sempre congelata in una mitica Età dell’Oro. In questo contesto rimane poco spazio per un paesaggio agrario moderno prodotto dalle pratiche agricole industrializzate contemporanee”. Così l’ideologia communitarian, ha chiuso gli occhi della politica urbana italiana nel periodo cruciale della metropolizzazione del paese prendendo lo sprawl devastante in corso per un improbabile “ritorno alla campagna”, con effetti devastanti per molti anni a venire. In quegli anni, gli esperti che cercavano di far aprire gli occhi venivano tacitati: il mio collega e amico Fulvio Beato, della Sapienza, invitato a una trasmissione televisiva su “la fuga dalle città” si era permesso di citare alcuni dati statistici che mettevano in dubbio che ci fosse tale fuga, il presentatore, primo gli ha tagliato di lì in poi la parola e secondo alla fine l’ha chiamato in studio per dirgli “Lei mi ha rovinato la trasmissione”. Autopoiesi allo stato puro che, però, purtroppo, si è riversata sulle politiche che in quel periodo sono state obnubilate dalla obsoleta contrapposizione ra una città che non c’è più e una campagna che forse con queste caratteristiche non è mi esistita. Continuando a parlare di città e campagna si perpetua un equivoco. Non c'è nessun dubbio che quel che è stato denominata “un’area metropolitana standard”, dopo un numero considerevole di studi, culminati nei tardi anni ‘60, sia, di fatto, una nuova razza di animale urbano. Come Norman Gras ha detto una volta, "la grande città, la città eccezionale…si è sviluppata lentamente verso la metropoli economica" (Gras, 1922, p. 181). Con sbalorditiva intuizione, Wells (1905) ha scritto, le città giganti messe al mondo dalla ferrovia (...) con tutta probabilità [sono] destinate ad un tale processo di dissezione e diffusione da arrivare quasi alla distruzione (...) nello spazio calcolabile di qualche anno. Queste città future (...) rappresenteranno una nuova ed interamente nuova fase di distribuzione umana (...). La città si allargherà fino a che non occuperà zone considerevoli ed assorbirà molte delle caratteristiche di quello che ora definiamo paese (...). La campagna stessa avrà caratteristiche cittadine. La vecchia antitesi (...) finirà, le frontiere spariranno interamente. Sconfinata appunto questa realtà che è quella in cui ci muoviamo con i nostri piedi (e le nostre ruote) ma a volte ci rifiutiamo di muoverci con la nostra testa e il nostro cuore. Io penso invece che si apra una favorevole finestra di opportunità per ripensare la funzione metropolitana con maggiore consapevolezza dei fatti. Approfittiamone e, per favore, lasciamo perdere i Rio Bo . Si è spesso parlato di morte dello spazio o più appropriatamente di fine della “tirannia dello spazio” Il punto che mi interessa sottolineare è che le inquietudini “capitali” del nostro tempo, si sono facilmente trasformate in inquietudini “delle” capitali che sono la sede della elaborazione e della narrativa del nostro tempo, acquistando via via, come una crescente valanga mediatica una coloritura sempre più emergenziale che si riflette anche nel titolo di opere non necessariamente rivolte solo al grande pubblico, ma si riflette soprattutto nella narrazione artistica. Visti dall’osservatorio del mondo urbano i macroprocessi che contribuiscono alle inquietudini sono prevalentemente tre: la recessione dei confini, lo sviluppo delle PNR, Popolazioni Non Residenti, e la doppia ermeneutica. Accantonando per il momento la questione della doppia ermeneutica, mi concentrerei sul primo punto. La recessione dei confini è un processo molto generale che riguarda sia i fenomeni fisici che l’ampliamento delle conoscenze e della coscienza dei limiti. I confini recedono lungo molte dimensioni, dai confini dell’universo visibile (e abitabile), a quelli della cosmogonia, a quelli dell’infinitamente piccolo, ma più di recente anche all’interno del nostro corpo e della nostra mente, senza dimenticare la recessione dei confini territoriali a partire appunto da quelli dell’area urbana. Per limitarci a questi ultimi vediamo come vari processi interagiscano per stimolare la recessione dei confini della nuova città. La città tradizionale aveva ben precisi confini e una ben definita popolazione, sia pure in entrambi i casi con qualche variabilità attorno a queste definizioni, ma il concetto era chiaro e condiviso. La coincidenza di una popolazione con un territorio ben delimitato é al tempo stesso il portato fondativo dell’urbanizzazione antica, largamente basata sull’idea di città-stato cioè della sovrapposizione tra polis e astu, tra la città sociale e la città costruita, e il rafforzamento che di questa coincidenza si è avuto con la razionalizzazione del territorio a fini amministrativi sostenuto dalla diffusione dello stato moderno. A partire dai primi decenni del xx secolo questa identificazione o sovrapposizione comincia a venire meno: i confini della città reale, che si configura come un’area metropolitana cioè una entità territoriale funzionale costituita da una unità centrale, “core” e da una area circostante “periphery” (“rings”, “fasce”, “hinterland”, “periurbain”). L’unità funzionale è essenzialmente un bacino di pendolarità, che è stato a volta a volta chiamato, DUS (Daily Urban System) o FUR (Functional Urban Region). L’aspetto importante di questo sviluppo che ha interessato prima gli Stati Uniti e poi anche l’Europa, è lo svincolamento della unità urbana “funzionale” da una precisa delimitazione territoriale. L’area centrale (core) è normalmente definita da un confine amministrativo ben definito, ma l’area metropolitana non è facilmente definibile perché è un concetto appunto “funzionale” non territoriale, per di più variabile nel tempo. I confini del sistema recedono, si allontanano e, anche perdono di precisione, sono meno definibili, anche se non del tutto inesistenti. Il fenomeno apparente della fuga verso le campagne altro non è che un aspetto della crescita metropolitana che è continuata indisturbata anche negli ultimi anni. Se si fa una semplice analisi della distribuzione dei comuni esterni ai confini delle aree metropolitane del 1991, che hanno visto crescere la propria popolazione si vedrà che sono in grandissima parte comuni adiacenti alle precedenti aree metropolitane, oppure comuni in aree con una specifica vocazione turistica. L’Italia metropolitana cresce e la tradizionale campagna si spopola. Questo fenomeno è chiarissimo in Emilia, dove nel corso dell’ultimo decennio intercensuale la meta-città emiliana si è diffusa creando una saldatura tra le precedenti aree metropolitane e un unico corridoio urbanizzato, come avviene in tutta Europa. Contribuiscono a questo fenomeno di recessione dei confini vari processi legati ai differenziali di rendita urbana, alle trasformazioni dell’uso delle abitazioni e agli stili di vita, oltre che alla diffusione delle tecnologie dell’informazione che permettono e anzi impongono di passare una crescente parte del proprio tempo in casa. Questo fa sì che a parità di altri fattori, reddito, composizione famigliare,stile di vita, occupazione, ci sia una pressione verso la ricerca di abitazioni più spaziose, e che, sempre a parità di altri fattori, queste abitazioni si trovino nelle aree esterne delle grandi metropoli.C’era una volta…“In antichità -scrive Giddens,- non era possibile separare il luogo dallo spazio-tempo”. Neppure gli dei potevano farlo: prendete il punto di svolta nell’Odissea, quando Atena, traendo vantaggio dal pigro risveglio di Zeus, lo convince ad annullare la dannazione imposta al suo protetto Odisseo da Poseidone, vale a dire il perenne viaggiare. Zeus decide di mandare Hermes, il messaggero, all'isola in cui Odisseo, essendosi innamorato della Ninfa Calipso, è rimasto per sette anni, interrompendo il lungo viaggio verso casa. Nell'era di Internet, l'ordine arriverebbe istantaneamente, ma nell'età dell'unità del luogo e del tempo della narrativa teatrale, persino l'immaginazione doveva seguire determinate regole. Hermes poteva viaggiare a velocità di sogno, ma si doveva comunque spostare fisicamente. “volò il potente Argheifonte…piombò dal cielo sul mare; e si slanciò sull’onde, come il gabbiano che negli abissi paurosi del mare instancabile, i pesci cacciando, fitte l’ali bagna nell’acqua salata; simile a questo, sui flutti infiniti Ermete correva” Od, V, 50. Successivamente Hermes si lamenta della fatica del viaggio. “E chi volentieri traverserebbe tant’acqua marina, infinita? Non è neppure vicina qualche città di mortali che fanno offerte ai numi, elette ecatombe” Od, V, 101. In breve, si tratta di un lungo viaggio senza pause pranzo. Nessun McDonald, nessun Burger King, né Pizzarite, Pavesini o International Houses of Pancake e neppure il profumo dei sacrifici. La storia è davvero interessante perché spiega chiaramente che anche nel mondo fantasmagorico dell’Odissea, viaggiare doveva essere reale, confermando l'intuizione sociologica della natura “sradicata” delle società contemporanee, in cui la mobilità è non soltanto una dinamica sociale importante, ma anche una caratteristica culturale dominante. Si va dall’implicito dileggio del viaggio nel bellissimo verso di Orazio che tutti i liceali italiani hanno studiato a memoria, alla affermazione di Blaise Pascal ( “Il problema degli uomini è che sono capaci di stare tranquilli nella loro stanza”) entrambe frutto di culture in cui il viaggiare era raro, faticoso, costoso e pericoloso all’inversione completa del punto di vista incorporata nel famoso logo della Cunard Lines, going there is half of the fun. Nelle sue varie forme e connotazioni, la mobilità è un fenomeno sociale dominante ma, mentre il movimento delle popolazioni attraverso la superficie del pianeta è una delle caratteristiche più antiche della specie umana, non c'è dubbio che sia la città, in particolare la città contemporanea, a fornire l'ambiente fisico e culturale in cui il sistema di mobilità si è sviluppato al suo massimo. Quando parliamo di un “sistema di mobilità” ci riferiamo sia ai sistemi tecnologici, quali le infrastrutture a sostegno della mobilità, sia al fatto che tali sistemi non sono soltanto limitati all'infrastruttura fisica – l’hardware, per così dire - ma includono anche componenti economiche, culturali e sociali - il software. Questo punto è stato pienamente sottolineato da numerosi autori, ma in modo particolarmente esemplare da Alain Gras con il suo concetto di “macrosystème”. Sfortunatamente questo concetto non è entrato nella pratica corrente. Gli aspetti sociali e culturali, e perfino quelli economici, sono spesso trattati come variabili residue, riunite sotto un’unica voce (vagamente definita) di “domanda” di mobilità, dimenticando di suggerire l’aspetto complementare della mobilità, vale a dire l’accessibilità, un bisogno dominante e altamente valutato delle organizzazioni sociali contemporanee. Ma a ciò si arrivati perché vi è stato anche un radicale mutamento culturale, aiutatoi da ben individuabili movimenti artistici e filosofici tra i quali i Futuristi occupano un posto significativo lasciando l’impronta della loro proclività al dinamismo sull’immagine di Milano, la città che più di ogni altra si identifica con il Futurismo. La cultura della mobilità è interconnessa alla diffusione delle tecnologie ICT, Information and Communication Technologies. Contrariamente alle aspettative ampiamente annunziate, la diffusione degli strumenti d'informazione accessibili “da casa” non ha condotto le città a un playback tecnologico della rivoluzione industriale, trasformandole in una costellazione diffusa di “cottage tecnologici per telelavoratori”. Le nostre case si sono, in effetti, trasformate in una piattaforma per una miriade di macchine ICT, ma contemporaneamente, paradosso non ancora completamente spiegato, le città continuano a svilupparsi e i sistemi di trasporto sono sottoposti a pressioni inesorabili, malgrado (o piuttosto in concomitanza con) la diffusione delle reti di informazione. L’analisi di ciò che accade nelle grandi aree metropolitane urbane e nel mondo può aiutare a chiarire tale paradosso. Lo sviluppo delle PNR Popolazioni Non Residenti, provoca un indebolimento dei legami tra popolazioni e spazio e contribuisce alla situazione emergenziale nelle nuove forme urbane. Nella città tradizionale, su cui tutto lo stato attuale delle conoscenze della vita urbana è ancora in gran parte modellato, gli abitanti, o la popolazione che vive nella città ha coinciso quasi interamente con la popolazione che lavora nella città. I limiti della città hanno incluso entrambe le popolazioni su un unico territorio; per secoli, e fino agli ultimi tempi, questo spazio è stato circondato da mura ed è stato ordinatamente separato dal resto del territorio. La rivoluzione industriale non ha molto cambiato questa situazione; la produzione delle merci nel settore secondario richiede principalmente lo spostamento delle materie prime, delle merci manufatte e del capitale, mentre gli operai e gli imprenditori rimangono in gran parte concentrati nelle aree urbane. Soltanto il ventesimo secolo ha determinato un cambiamento radicale. Osservando la forma della città nella prima metà di questo secolo, notiamo come il pendolarismo abbia influenzato la scena urbana in termini di infrastruttura, di creazione di nuove e distintive zone residenziali e di cambiamenti radicali nei vecchi centri. Il risultato è ciò che definisco metropoli di prima generazione, caratterizzata da una città-nucleo e da vaste zone circostanti, principalmente basate su regioni urbane funzionali o su bacini di pendolarità giornaliera. Non c'è nessun dubbio che quel che è stato denominata “un’area metropolitana standard”, dopo un numero considerevole di studi, culminati nei tardi anni 60, sia, di fatto, una nuova razza di animale urbano. Come Norman Gras ha detto una volta, "la grande città, la città eccezionale…si è sviluppata lentamente verso la metropoli economica" (Gras, 1922, p. 181) ma la metropoli economica è appunto un nuovo spazio fisico non facilmente determinabile, senza particolari segni ai confini: nella città si entra, mentre nella metropoli si arriva. E spesso non riusciamo bene a cogliere la caratteristica della nuova forma urbana. Nel migliore dei casi, quando se ne parla, la si immagina come un’area del tutto autonoma dalla città, commettendo un grave errore, sottolineato con forza da Deyan Sudjic che critica vivacemente questa immagine errata. "immaginate - scrive Sudjic - il campo di forza attorno a un cavo dell'alta tensione, scoppiettante di energia e lì lì per scaricare un lampo a 20.000 volts in uno qualsiasi dei punri della sua lunghezza, e avrete una idea della natura della città contemporanea. (Sudjic, 1993: p.334). Il richiamo di Sudjic all’energia elettrica offre un felice accostamento per un raccordo con il tema delle nuove tecnologie. Infatti, di pari passo con la diffusione della motorizzazione privata, lo sviluppo delle teconologie dell'informazione ha dato una spinta decisiva alla formazione della nuova città. Da un lato cambiando l'organizzazione del lavoro che si deistituzionalizza e distribisce nello spazio, secondo un modello ormai largamente noto che va sottto il nome di economia post-fordista. Dall'altro per i cambiamenti indotti dalle "macchine per l'abitare". In parte si è trattato di un processo simile a ciò che è avvenuto in fabbrica, con l'avvento di macchine “time and labour saving”, cioè strumenti che servono a far risparmiare lavoro e tempo, soprattutto alle donne. Ora però questo tempo viene impiegato da beni “time consuming”, tutte quelle macchine che servono a consumare il tempo liberato e di cui noi ci riempiamo progressivamente la casa. Primo tra tutte il più grande mangiatore di tempo che è la televisione, ma anche l’alta fedeltà, le macchine fotografiche e il calcolatore e così via. Le abitazioni diventano più comode, ma contemporaneamente richiedono più spazio e a parità di reddito lo spazio maggiore si trova più lontano dai centri tradizionali. Così una nuova città, indistinta, confusa, temuta e poco conosciuta cresce attorno al nucleo tradizionale delle città industriali, si intrufola negli interstizi lasciati liberi dalla deindustrializzazione, li penetra e modifica esattamente come circa mille anni orsono la città medievale è sorta attorno ai castelli feudali in disuso, li ha inglobati e sostituiti dando vita alle città che rappresentano il modello urbano europeo originale, che oggi deve fronteggiare la nuova città diffusa, disordinata e disarmonica, ma "scoppiettante di energia". Va da sé che questo scoppiettio è costoso proprio in termini di consumo energetico. E, ancora una volta, la nuova struttura sociale non è irrilevante per la morfologia fisica, se si guarda l’area di Milano si può vedere che l’area metropolitana non è solo una più grande Milano. E’ una nuova struttura funzionale in forte interazione funzionale con la tradizionale città comunale.In conclusione, lo spazio non è stato ucciso, ma si sono aggiunti altri spazi la cui esplorazione è appena cominciata.

1. Di che cosa stiamo parlando. Come si viveva in città e come si vive oggi (nel territorio)? Vivere intanto significa svolgere alcune funzioni: abitare, lavorare, svagarsi, studiare, socializzare (scambiare risorse con gli altri). Semplificando molto possiamo dire che “un tempo” c’era una coincidenza spaziale tra queste funzioni e il luogo in cui esse si svolgevano: urbs e polis coincidevano. Il quartiere, l’unità di vicinato, e poi la città intera o il “comune”, erano ad un tempo lo spazio e il luogo nel quale queste funzioni della vita si esplicavano. Funzioni comuni di una vita “comunitaria”. Comunità che ha qui un senso preciso, indica una rete di relazioni dirette, principalmente “faccia a faccia”. Relazioni che perdurano - con molte variazioni e differenze - anche quando la città si ingrossa e diventa “grande”: per tutto il ‘900 l’aumento della popolazione e l’intensificazione di tutti i “fattori urbani” producono progressivamente nel mondo metropoli e megalopoli; e anche il nostro Paese non è esente da queste trasformazioni, seppure con misure certo differenti. Oggi molto è cambiato: le funzioni di vita - quelle sopra richiamate - si svolgono in uno spazio dilatato, rappresentato da geografie sempre diverse: alcune localizzate in quella che comunemente chiamiamo città, altre in un territorio incerto tra la campagna e la città, altre ancora addirittura non localizzabili pienamente, perché variano nel tempo e col nostro stile di vita, o semplicemente perché non sono localizzabili (le “comunità virtuali” ad es.). Ciascuno di noi può verificare, sulla base della propria esperienza, come quotidianamente e mensilmente la “mappa” della nostra vita sia costituita da percorsi “elastici”, che si allargano dal nostro luogo di residenza abituale, si spingono al lavoro, e via via disegnano un territorio che non coincide più con una città, ma con una ragnatela di luoghi e percorsi: questo è il territorio della dispersione insediativa.

2. Le cause che hanno condotto a questa condizione. Elementi (anche contraddittori) della democrazia: lo sviluppo della motorizzazione di massa; la promozione della mobilità e dell’accessibilità allo spazio come “diritto di cittadinanza”; l’aumento della ricchezza procapite (quindi la possibilità di spendere risorse crescenti in beni e servizi non “primari” - le vacanze, la palestra, la cultura, lo shopping ecc.). Elementi che hanno a che fare con lo sviluppo economico: l’investimento nel settore edilizo come “rifugio” costante del mercato e della finanza; la fiscalità degli enti locali fondata - progressivamente e insistentemente - sul metro quadrato di edificato (ici e oneri ad es.); la crisi della grande industria fordista (storicamente collocata in città o nel suo immediato intorno) a favore delle piccole imprese della subfornitura, dei sistemi locali (che trovano nel vasto territorio tra campagna e città, il loro “liquido amiotico”). Ancora, elementi legati alla sofferenza congenita delle città contemporanee, che spinge i cittadini ad andarsene: congestione e inquinamento; aumento del costo delle abitazioni; crisi del lavoro. Ma anche, infine, elementi che hanno a che fare con le tradizionali pulsioni localistiche italiane: ogni comune - per essere tale - vuole l’area industriale; ogni piccola città il suo aeroporto e la sua fiera; tutti vogliono che questi luoghi siano raggiungibili: e tutti chiedono infrastrutture, piccole e grandi opere, la cui somma non è mai collettivamente razionale.

3. Quali i costi. Lo sviluppo “diffuso” degli insediamenti urbani, delle reti, e in genere dell’antropizzazione a bassa densità ha alcune conseguenze negative, ben misurabili. Intanto l’aumento costante del “consumo di suolo” agricolo e/o naturale; una risorsa limitata, questa, che rappresenta il luogo di molteplici, simultanei e contrapposti interessi (perciò destinato ad avere valori vieppiù alti): quelli ecologici (il suolo per la ricarica delle falde, per la produzione di biomassa, per la conservazione del paesaggio ecc.); quelli economico-produttivi (agricoltura vs industria, agricoltura vs infrastrutture tecnologiche come elettrodotti e ferrovie ecc.); quelli, infine, relativi alla compagine sociale del territorio (il suolo come luogo nel quale si costruiscono relazioni, dove si conserva, corrompe e si estingue la “tradizione”, dove si mantiene o si trascura e si dimentica “la storia del luogo”). Altra voce di costo ascrivibile alla “dispersione” è quella sanitaria, in particolare riferibile all’incidentalità: un territorio brulicante di percorrenze erratiche, su strade inadatte all’intenso e dilagante uso prodotto con l’automobile privata, rappresenta - dati alla mano - il luogo in cui l’incidentalità stradale si manifesta in modo eclatante e drammatico; costo sociale ma anche costo economico: l’incidenza delle spese sanitarie per traumi da incidente sul PIL regionale è (forse inaspettatamente) una “zavorra” cui sarebbe molto opportuno porre rimedio. Terza voce di coso, il consumo di “energia” in senso lato: l’aumento dei chilometri percorsi procapite (e in genere della motorizzazione privata), sospinto dalla dispersione degli insediamenti, si traduce immediatamente nell’aumento di consumo di combustibile fossile per la trazione; ma nella bassa densità dello sviluppo insediativo si evidenzia anche - implicitamente - un progetto “dissipativo” degli insediamenti stessi, laddove è impossibile realizzare “economie di scala” - e dunque risparmi procapite - per la produzione di servizi, reti, tecnologie, che solo una “giusta concentrazione” potrebbe favorire.

4. Quali i vantaggi. I vantaggi della dispersione insediativa sono principalmente ascrivibili alla sfera privata. Sono cioè vantaggi che ciascuno realizza per massimizzare i propri interessi, indipendentemente da quelli della collettività: “vado ad abitare in campagna perché la città è inquinata, perché in campagna la mia famiglia vivrà meglio”. In questa affermazione non c’è un progetto sociale, c’è una (razionale e legittima) soluzione di un problema privato. E’ qua - probabilmente - che si può sintetizzare il complesso dei vantaggi. Non che nella città tradizionale “ciascuno pensi agli altri” prima di agire; è l’organizzazione del sistema urbano che “impone” - in qualche misura - la simultanea realizzazione di un interesse privato, senza danni per la collettività o addirittura realizzando un interesse collettivo.

5. Quali prospettive desiderabili. E’ verosimile o è auspicabile o possibile che la società possa evolversi pienamente e positivamente vivendo in un territorio dilatato, nel quale lo scambio quotidiano è diluito, discontinuo, distratto, indiretto ecc.? Cioè, possiamo credere che una comunità possa vivere senza contatto “fisico”? E poi, sono accettabili o governabili i costi di questo modello di sviluppo del territorio e della società? Basterà l’aumento impetuoso del costo del carburante ad imporre soluzioni drastiche per assetti territoriali più razionali?

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