sabato 14 febbraio 2009

Materiale informatico da portare all'esame

All'esame gli studenti sono tenuti a portare oltre alle tavole stampate anche un cd/dvd con:

- copia delle tavole in formato pdf,
- una cartella con i singoli disegni non impaginati in formato pdf o jpg (almeno 150 dpi)
- relazione del progetto (max un A4)

lunedì 9 febbraio 2009

Revisioni giorno 13/02/09

Si comunica che, in data 13/02/09 alle ore 9.00am nell'atrio fronte aula N1 dell' ex cotonificio di santa marta, si terranno le revisioni dei progetti con il professor Meuro Frate.

venerdì 14 novembre 2008

CITTA'TERRITORIO FESTIVAL _ Ferrara 08 _ Guido Martinotti, Città diffusa, costi e vantaggi

Mi sembra sia stato molto opportuno dedicare l’incipit del nostro discorso alla definizione dell’oggetto. Il linguaggio è importante e forse nessun oggetto come l’urbanesimo contemporaneo è soggetto agli “eidola fori”. La complessità e le crescenti dimensioni planetarie del fenomeno incoraggiano la retorica iperbolica (hype) dei bardi urbani. che, nel quadro della grande narrazione del fenomeno urbano contemporaneo, si colloca in maggioranza nella famiglia degli “apocalittici”, per richiamare una vecchia distinzione di Umberto Eco, aggiungendo poi che gli “integrati” in questo campo sono spesso anche i cantori della “growth machine”.Il fenomeno urbano sembra solleticare negli intellettuali una irrefrenabile propensione al bardismo e all’uso delle forti tinte. Cito senza l’autore – non mi interessano qui le notazioni personali, ma i testi,“Il fenomeno urbano contemporaneo è sospeso su tre disastri” e la “riflessione teologico-pastorale che guarda alla città con lo sguardo rivolto non solo alla “nuova Gerusalemme”, ma anche alla mitica Babele (Gn 11, Is 1, 21-26) – città dell’idolatria, dell’ingiustizia, della divisione – e alla biblica Ninive, nuovamente colpita da alcune pestilenze: quella della violenza, della corruzione”. Oppure “E siccome la città è diventata un insieme di frammenti sospesi in un equilibrio sociale instabile e precario, un magma mal unificato con infinite stratificazioni pronte a rovesciarsi l’una nell’alra (sic), l’incongruità deve essererimossa o esaltata per ricercare una pluridentità?” e ancora “… i principi di una contemporaneità basata sul nucleo dell’architettura e dell’arte attuali hanno votato la città a risplendere di un’immagine dal forte crepitio visivo” (tra l’altro il crepitio è una citazione nascosta.ndr) e via scoppiettando. Sarà forse inevitabile, perché le tendenze osservate di recente nei sistemi urbani della maggior parte delle economie avanzate stanno subendo una trasformazione profonda, le cui caratteristiche cominciano ora a essere tracciate con approssimazione, ma le cui conseguenze sono ben lontane dall’essere comprese. Ma questa comprensione non può giovarsi di termini sbagliati. Nel 1938, Louis Wirth scrisse un famoso articolo sull’American Journal of Sociology (Urbanism as a way of life) testo che influenzò enormemente le concezioni dell’urbanesimo contemporaneo, tra gli scienziati sociali, ma anche tra architetti e urban planners. Wirth postulò che le città potessero essere definite da tre variabili: la (size), la densità e, (correlativamente, aggiungo io) l’eterogeneità. Mezzo secolo dopo, a partire dagli ultimi decenni del secondo millennio, questi criteri non servono più a definire il fenomeno urbano, anche se nessuno finora è riuscito a proporre una interpretazione altrettanto essenziale. Le grandi città diminuiscono ovunque di popolazione e, a ben guardare, non si sa neppure tanto bene su che oggetto misurare la dimensione; la densità metropolitana si abbassa al punto che, negli Stati Uniti, la densità delle aree metropolitana è eguale alla densità totale di paesi come l’Italia; l’eterogeneità resta un importante elemento, ma si formano nuovi processi segregativi basati non più sulle classi sociali, ma su diverse popolazioni, particolarmente le popolazioni notturne e quelle diurne. Le città di tutto il mondo sono oggi investite da tre macroprocessi che stanno mutando profondamente la natura del fenomeno urbano: la recessione dei confini che trasforma entità chiaramente circoscrivibili in “terre sconfinate” di cui è difficile perfino definire limiti e dimensione; la nascita di NRP, Non Resident Populations, a partire dai pendolari che usano gli strumenti di mobilità per distribuire attività su territori ampi a bassa densità e, infine, i fenomeni legati alla diffusione dei media e della cultura di massa che contribuiscono a mutazioni profonde delle forme di governo e anche della rappresentazione condivisa della realtà sociale contribuendo al fenomeno della “doppia ermeneutica”. Come in tutti i periodi di mutazione strutturale profonda, il vecchio e il nuovo sono estremamente mescolati, nella realtà così come nelle menti di uomini e donne, ed è difficile scindere l’uno dall’altro. Risulta dunque possibile parlare di disurbanizzazione e vivere in città soffocate dal traffico, sentire parlare di città cablate e vedere fiorire imprese di trasporto di posta espressa che si servono di ragazzini in bici o in motocicletta, osservare grandi pezzi di terreno urbano sgomberati dalle industrie e sperimentare l’aumento dei costi urbani di insediamento e così via. Sarebbe ingenuo credere di poter delineare oggi una teoria completa capace di spiegare tutti questi cambiamenti, ma si dovrebbe per lo meno tentare di riformulare l’insieme di idee che abbiamo oggi circa il fenomeno urbano, senza però cedere all’uso manipolatorio delle parole e alle distorsioni dell’ideologia, che sogna improbabili “ritorni alla natura”, e manca di prendere atto della formazione di nuovi tipi di rapporti costituiti da reti “lasche” e “intermittenti” (incontro più spesso - un paio di volte l’anno- il mio collega Harvey di NYU, che il mio amico del cuore nelle medie che vive in un altro quartiere della mia città). E soprattutto è necessario ricostruire un apparato concettuale realistico senza cedere all’uso di termini evocativi quanto teoricamente vacui: i “non-luoghi”, termine che Augé ha copiato, puerilizzandolo, da Webber; la città infinita che comincia a Varese e finisce a Bergamo; la società liquida che Bauman propone sciogliendo in soluzione mediatica all’1% le idee di Castells di dieci anni prima, e via dicendo. Termini che acquistano immediata diffusione mediatica, perché a questo scopo sono pensati, confondendo le idee e interferendo con una comprensione dei fatti, perché anche nel mercato della trasmissione culturale vale la legge di Gresham. Invece è assolutamente necessario rinnovare la cassetta degli attrezzi dell’analisi urbana, come stanno facendo molti studiosi da Sassen a Sennett a Thrift e a Urry. Le dinamiche correnti intaccano, infatti, profondamente l'apparato cognitivo su cui è basata attualmente la conoscenza scientifica delle città. La maggior parte dei dati empirici relativi all’urbanizzazione proviene da fonti istituzionali, ma la proiezione dei modelli di organizzazione statuale sul territorio è sempre più ostacolata da quegli stessi cambiamenti che le statistiche ufficiali dovrebbero tenere sotto controllo; le difficoltà crescenti con cui si scontrano i censimenti, anche in società altamente organizzate come gli Stati Uniti, non possono essere considerate eventi marginali. Le funzioni cruciali della dinamica urbana corrente, come la crescente popolazione d’immigrati negli strati inferiori del mercato del lavoro, passano in gran parte inosservate dalle statistiche ufficiali. Lo stesso accade con i mercati in allargamento nelle grandi città, per esempio le economie illegali, o con i fenomeni più tradizionali dell’emarginazione sociale che assume attualmente nuove dimensioni: la dipendenza dalla droga, la marginalità della gioventù e il problema dei senzatetto. Riconcettualizzare tutto ciò è assolutamente necessario: molti degli strumenti intellettuali esistenti e utilizzati per descrivere il fenomeno urbano sono stati costruiti su una morfologia urbana profondamente diversa e quindi inappropriati per i nuovi modelli di rapporti sociali emersi nel tempo e nello spazio. L'ecologia sociale (che rimane, ciò nonostante, la fonte più notevole di conoscenza sugli stanziamenti umani) è basata, in entrambe le sue versioni (classica e contemporanea), sull'analisi di concorrenza fra i diversi gruppi umani per la conquista dello spazio vivente. Se è vero che nelle analisi ecologiche sociali molte funzioni sono ugualmente considerate, quella residenziale è di gran lunga la predominante e ne è prova lampante il fatto che la maggioranza delle statistiche sulle città è basata su modelli residenziali e su unità residenziali d'osservazione. D’altro canto, sembra evidente che la nuova forma di morfologia urbana sia per la maggior parte il prodotto della differenziazione progressiva di numerose popolazioni che gravitano intorno ai centri metropolitani: con la crescente mobilità della popolazione in termini di numeri, direzione, portata e frequenza, i rapporti stessi fra popolazione e territorio diventano altamente dinamici. Quindi l’insieme di concetti ecologici sociali che miravano alla ricostruzione delle strutture di disposizione spaziale è sottoposto a forti tensioni. Anche le analisi basate sulle classi sociali incontrano difficoltà ugualmente gravi. Osserviamo, infatti, i movimenti sociali diventare sempre più visibili sulla scena urbana, mentre le grandi masse di nuovi venuti e di Popolazioni Non Residenti, NRP, alterano la struttura sociale tradizionale. Parallelamente, i cambiamenti generali che si registrano nella struttura dell'economia mondiale incidono profondamente sui modelli prestabiliti delle diverse classi sociali, soprattutto nelle economie avanzate. La globalità tipica dell’economia mondiale rende molti dei concetti di analisi urbana obsoleti; le città sono state sempre concepite come unità più o meno isolate: comunità urbane o metropolitane all'interno di una struttura nazionale, pezzi di società che potrebbero, per così dire, essere isolate sperimentalmente dal resto per un’analisi sociale. Anche l'analisi sociologica dei sistemi urbani si è occupata principalmente, anche se non esclusivamente, di sistemi urbani nazionali o regionali. Tale è il caso, per esempio, della Legge di Zipf e di tutti gli altri studi basati su valutazioni in ordine di rango (rankorder): se prendiamo i comuni la “legge” (che non è legge più di quanto non lo sia la famosa “legge” di Bode che tanto imbarazzò il giovane Hegel) di Zipf ci dà per il nostro paese, nell’ordine decrescente, Roma, Milano, Napoli, con popolazioni più o meno nell’ordine 1, ½ , 1/3 . Ma se prendiamo la realtà metropolitana abbiamo una legge di Zipf che si applica, molto approssimativamente, solo a un ordine del tutto diverso: una “Milano” di 6 a 8 milioni (appunto, non sappiamo la “dimensione” a che entità si applichi e quindi vi è incertezza) e, in decrescendo, una “Napoli” di 3 a 5 milioni e una “Roma” che non cambia molto da comune ad area perché lo sviluppo metropolitano è avvenuto largamente entro i confini comunali. Oggi diventa sempre più difficile mantenere la finzione analitica di un sistema urbano nazionale entro cui opera la “legge di Zipf”, specialmente in zone geopolitiche come l’Europa, in cui la crescita di istituzioni sopranazionali ha liberato le singole città da legami nazionali, sottoponendole, per così dire, a una concorrenza in crescita per le risorse globali, come testimoniato dal numero crescente di club cittadini e lobby che si sono sviluppati rapidamente negli ultimi anni, e dall'interesse per il marketing urbano (vale a dire tecniche sviluppate per accrescere i vantaggi di posizione geografica - e più generalmente di amenità urbane - delle singole città sul piano internazionale). La città contemporanea, o per meglio dire, quell’insediamento senza confini (sconfinato, appunto, come dice, in buon italiano, uno studioso serio come Michele Sernini che conosce la nostra lingua, anticipando il concetto di “endless city” di Burdett e Sudjic e lasciando filosofi, matematici, letterati e innamorati il vocabolo hype di città infinita) che si è sviluppato attorno e lungo le assi del semis urbain europeo, è sostanzialmente fondata sulla mobilità e il consumo energetico e ma anche sullo scambio di informazioni in profonda e radicata sinergia. Come avviene in tutti i sistemi complessi non è certo che l’equilibrio del sistema avvenga in condizioni di massima utilità per tutte le sue componenti e, dopo un lungo periodo di esplosiva e quasi gioiosa diffusione della motorizzazione privata, che ha accompagnato lo sviluppo delle MUR, Mega Urban Regions, prima nelle economie avanzate e poi oggi in tutte le parti del mondo, si è ora, soprattutto nelle regioni più sviluppate, entrati in un’era di consapevolezza conservazionista, con lo studio e l’adozione di una ampia gamma di provvedimenti a diverso livello, nessuno dei quali, tuttavia, sembra in grado di fornire una risposta risolutiva, anche se l’insieme degli interventi, ma soprattutto l’apertura di una agenda, senza di che non è possibile pensare ad alcuna soluzione possibile, offrono buone possibilità. In questo quadro muta profondamente il ruolo della dimensione dei centri, sempre con le già espresse riserve sulla loro definizione: in passato, e per circa due secoli, la legge fondamentale dello sviluppo era semplice e chiara “più grande è un centro più rapidamente cresce”. Con gli ultimi decenni del xx secolo questa legge cessa di funzionare, si spopolano le grandi città e crescono i piccoli comuni, per effetto di una serie di processi, la tendenza si inverte, ma non può essere spiegata senza la forte interazione tra abitazione, lavoro e consumi, che plasmano la nuova forma fisica e sociale della città. Per concludere, l'avvento di nuove tecnologie nella comunicazione ha anche un effetto su alcuni concetti fondamentali di analisi urbana, come quello di Gemeinschaft, basato sui rapporti primari del gruppo. È evidente che i profeti dell'industria elettronica non sono poi così neutrali e hanno notevolmente sopravvalutato gli effetti reali della tecnologia d'informazione, anche se taluni di questi sono stati inevitabili e sempre più rilevabili. Purtroppo l’ideologia communitarian, con cui una grandissima parte dell’intellettualità italiana si identifica in modo stupefacentemente acritico, ha stabilito che il nostro paese sia sostanzialmente fatto da due o tre Milano (tendenzialmente yucky) e mille Rio Bo (sostanzialmente yummy). Non sorprende quindi che nel periodo in cui la dimensione metropolitana si stava affermando nel nostro paese con forza prorompente e governata, l’immagine pubblica sia stata coartata a interpretare i dati statistici come un improbabile, ma ideologicamente palatabile, ritorno a una campagna che, come dice Staffan Helmfrid, “I cittadini vorrebbero trovare nel paesaggio il prodotto di una società rurale che vive in armonia con se stessa e con la natura, immutabile e per sempre congelata in una mitica Età dell’Oro. In questo contesto rimane poco spazio per un paesaggio agrario moderno prodotto dalle pratiche agricole industrializzate contemporanee”. Così l’ideologia communitarian, ha chiuso gli occhi della politica urbana italiana nel periodo cruciale della metropolizzazione del paese prendendo lo sprawl devastante in corso per un improbabile “ritorno alla campagna”, con effetti devastanti per molti anni a venire. In quegli anni, gli esperti che cercavano di far aprire gli occhi venivano tacitati: il mio collega e amico Fulvio Beato, della Sapienza, invitato a una trasmissione televisiva su “la fuga dalle città” si era permesso di citare alcuni dati statistici che mettevano in dubbio che ci fosse tale fuga, il presentatore, primo gli ha tagliato di lì in poi la parola e secondo alla fine l’ha chiamato in studio per dirgli “Lei mi ha rovinato la trasmissione”. Autopoiesi allo stato puro che, però, purtroppo, si è riversata sulle politiche che in quel periodo sono state obnubilate dalla obsoleta contrapposizione ra una città che non c’è più e una campagna che forse con queste caratteristiche non è mi esistita. Continuando a parlare di città e campagna si perpetua un equivoco. Non c'è nessun dubbio che quel che è stato denominata “un’area metropolitana standard”, dopo un numero considerevole di studi, culminati nei tardi anni ‘60, sia, di fatto, una nuova razza di animale urbano. Come Norman Gras ha detto una volta, "la grande città, la città eccezionale…si è sviluppata lentamente verso la metropoli economica" (Gras, 1922, p. 181). Con sbalorditiva intuizione, Wells (1905) ha scritto, le città giganti messe al mondo dalla ferrovia (...) con tutta probabilità [sono] destinate ad un tale processo di dissezione e diffusione da arrivare quasi alla distruzione (...) nello spazio calcolabile di qualche anno. Queste città future (...) rappresenteranno una nuova ed interamente nuova fase di distribuzione umana (...). La città si allargherà fino a che non occuperà zone considerevoli ed assorbirà molte delle caratteristiche di quello che ora definiamo paese (...). La campagna stessa avrà caratteristiche cittadine. La vecchia antitesi (...) finirà, le frontiere spariranno interamente. Sconfinata appunto questa realtà che è quella in cui ci muoviamo con i nostri piedi (e le nostre ruote) ma a volte ci rifiutiamo di muoverci con la nostra testa e il nostro cuore. Io penso invece che si apra una favorevole finestra di opportunità per ripensare la funzione metropolitana con maggiore consapevolezza dei fatti. Approfittiamone e, per favore, lasciamo perdere i Rio Bo . Si è spesso parlato di morte dello spazio o più appropriatamente di fine della “tirannia dello spazio” Il punto che mi interessa sottolineare è che le inquietudini “capitali” del nostro tempo, si sono facilmente trasformate in inquietudini “delle” capitali che sono la sede della elaborazione e della narrativa del nostro tempo, acquistando via via, come una crescente valanga mediatica una coloritura sempre più emergenziale che si riflette anche nel titolo di opere non necessariamente rivolte solo al grande pubblico, ma si riflette soprattutto nella narrazione artistica. Visti dall’osservatorio del mondo urbano i macroprocessi che contribuiscono alle inquietudini sono prevalentemente tre: la recessione dei confini, lo sviluppo delle PNR, Popolazioni Non Residenti, e la doppia ermeneutica. Accantonando per il momento la questione della doppia ermeneutica, mi concentrerei sul primo punto. La recessione dei confini è un processo molto generale che riguarda sia i fenomeni fisici che l’ampliamento delle conoscenze e della coscienza dei limiti. I confini recedono lungo molte dimensioni, dai confini dell’universo visibile (e abitabile), a quelli della cosmogonia, a quelli dell’infinitamente piccolo, ma più di recente anche all’interno del nostro corpo e della nostra mente, senza dimenticare la recessione dei confini territoriali a partire appunto da quelli dell’area urbana. Per limitarci a questi ultimi vediamo come vari processi interagiscano per stimolare la recessione dei confini della nuova città. La città tradizionale aveva ben precisi confini e una ben definita popolazione, sia pure in entrambi i casi con qualche variabilità attorno a queste definizioni, ma il concetto era chiaro e condiviso. La coincidenza di una popolazione con un territorio ben delimitato é al tempo stesso il portato fondativo dell’urbanizzazione antica, largamente basata sull’idea di città-stato cioè della sovrapposizione tra polis e astu, tra la città sociale e la città costruita, e il rafforzamento che di questa coincidenza si è avuto con la razionalizzazione del territorio a fini amministrativi sostenuto dalla diffusione dello stato moderno. A partire dai primi decenni del xx secolo questa identificazione o sovrapposizione comincia a venire meno: i confini della città reale, che si configura come un’area metropolitana cioè una entità territoriale funzionale costituita da una unità centrale, “core” e da una area circostante “periphery” (“rings”, “fasce”, “hinterland”, “periurbain”). L’unità funzionale è essenzialmente un bacino di pendolarità, che è stato a volta a volta chiamato, DUS (Daily Urban System) o FUR (Functional Urban Region). L’aspetto importante di questo sviluppo che ha interessato prima gli Stati Uniti e poi anche l’Europa, è lo svincolamento della unità urbana “funzionale” da una precisa delimitazione territoriale. L’area centrale (core) è normalmente definita da un confine amministrativo ben definito, ma l’area metropolitana non è facilmente definibile perché è un concetto appunto “funzionale” non territoriale, per di più variabile nel tempo. I confini del sistema recedono, si allontanano e, anche perdono di precisione, sono meno definibili, anche se non del tutto inesistenti. Il fenomeno apparente della fuga verso le campagne altro non è che un aspetto della crescita metropolitana che è continuata indisturbata anche negli ultimi anni. Se si fa una semplice analisi della distribuzione dei comuni esterni ai confini delle aree metropolitane del 1991, che hanno visto crescere la propria popolazione si vedrà che sono in grandissima parte comuni adiacenti alle precedenti aree metropolitane, oppure comuni in aree con una specifica vocazione turistica. L’Italia metropolitana cresce e la tradizionale campagna si spopola. Questo fenomeno è chiarissimo in Emilia, dove nel corso dell’ultimo decennio intercensuale la meta-città emiliana si è diffusa creando una saldatura tra le precedenti aree metropolitane e un unico corridoio urbanizzato, come avviene in tutta Europa. Contribuiscono a questo fenomeno di recessione dei confini vari processi legati ai differenziali di rendita urbana, alle trasformazioni dell’uso delle abitazioni e agli stili di vita, oltre che alla diffusione delle tecnologie dell’informazione che permettono e anzi impongono di passare una crescente parte del proprio tempo in casa. Questo fa sì che a parità di altri fattori, reddito, composizione famigliare,stile di vita, occupazione, ci sia una pressione verso la ricerca di abitazioni più spaziose, e che, sempre a parità di altri fattori, queste abitazioni si trovino nelle aree esterne delle grandi metropoli.C’era una volta…“In antichità -scrive Giddens,- non era possibile separare il luogo dallo spazio-tempo”. Neppure gli dei potevano farlo: prendete il punto di svolta nell’Odissea, quando Atena, traendo vantaggio dal pigro risveglio di Zeus, lo convince ad annullare la dannazione imposta al suo protetto Odisseo da Poseidone, vale a dire il perenne viaggiare. Zeus decide di mandare Hermes, il messaggero, all'isola in cui Odisseo, essendosi innamorato della Ninfa Calipso, è rimasto per sette anni, interrompendo il lungo viaggio verso casa. Nell'era di Internet, l'ordine arriverebbe istantaneamente, ma nell'età dell'unità del luogo e del tempo della narrativa teatrale, persino l'immaginazione doveva seguire determinate regole. Hermes poteva viaggiare a velocità di sogno, ma si doveva comunque spostare fisicamente. “volò il potente Argheifonte…piombò dal cielo sul mare; e si slanciò sull’onde, come il gabbiano che negli abissi paurosi del mare instancabile, i pesci cacciando, fitte l’ali bagna nell’acqua salata; simile a questo, sui flutti infiniti Ermete correva” Od, V, 50. Successivamente Hermes si lamenta della fatica del viaggio. “E chi volentieri traverserebbe tant’acqua marina, infinita? Non è neppure vicina qualche città di mortali che fanno offerte ai numi, elette ecatombe” Od, V, 101. In breve, si tratta di un lungo viaggio senza pause pranzo. Nessun McDonald, nessun Burger King, né Pizzarite, Pavesini o International Houses of Pancake e neppure il profumo dei sacrifici. La storia è davvero interessante perché spiega chiaramente che anche nel mondo fantasmagorico dell’Odissea, viaggiare doveva essere reale, confermando l'intuizione sociologica della natura “sradicata” delle società contemporanee, in cui la mobilità è non soltanto una dinamica sociale importante, ma anche una caratteristica culturale dominante. Si va dall’implicito dileggio del viaggio nel bellissimo verso di Orazio che tutti i liceali italiani hanno studiato a memoria, alla affermazione di Blaise Pascal ( “Il problema degli uomini è che sono capaci di stare tranquilli nella loro stanza”) entrambe frutto di culture in cui il viaggiare era raro, faticoso, costoso e pericoloso all’inversione completa del punto di vista incorporata nel famoso logo della Cunard Lines, going there is half of the fun. Nelle sue varie forme e connotazioni, la mobilità è un fenomeno sociale dominante ma, mentre il movimento delle popolazioni attraverso la superficie del pianeta è una delle caratteristiche più antiche della specie umana, non c'è dubbio che sia la città, in particolare la città contemporanea, a fornire l'ambiente fisico e culturale in cui il sistema di mobilità si è sviluppato al suo massimo. Quando parliamo di un “sistema di mobilità” ci riferiamo sia ai sistemi tecnologici, quali le infrastrutture a sostegno della mobilità, sia al fatto che tali sistemi non sono soltanto limitati all'infrastruttura fisica – l’hardware, per così dire - ma includono anche componenti economiche, culturali e sociali - il software. Questo punto è stato pienamente sottolineato da numerosi autori, ma in modo particolarmente esemplare da Alain Gras con il suo concetto di “macrosystème”. Sfortunatamente questo concetto non è entrato nella pratica corrente. Gli aspetti sociali e culturali, e perfino quelli economici, sono spesso trattati come variabili residue, riunite sotto un’unica voce (vagamente definita) di “domanda” di mobilità, dimenticando di suggerire l’aspetto complementare della mobilità, vale a dire l’accessibilità, un bisogno dominante e altamente valutato delle organizzazioni sociali contemporanee. Ma a ciò si arrivati perché vi è stato anche un radicale mutamento culturale, aiutatoi da ben individuabili movimenti artistici e filosofici tra i quali i Futuristi occupano un posto significativo lasciando l’impronta della loro proclività al dinamismo sull’immagine di Milano, la città che più di ogni altra si identifica con il Futurismo. La cultura della mobilità è interconnessa alla diffusione delle tecnologie ICT, Information and Communication Technologies. Contrariamente alle aspettative ampiamente annunziate, la diffusione degli strumenti d'informazione accessibili “da casa” non ha condotto le città a un playback tecnologico della rivoluzione industriale, trasformandole in una costellazione diffusa di “cottage tecnologici per telelavoratori”. Le nostre case si sono, in effetti, trasformate in una piattaforma per una miriade di macchine ICT, ma contemporaneamente, paradosso non ancora completamente spiegato, le città continuano a svilupparsi e i sistemi di trasporto sono sottoposti a pressioni inesorabili, malgrado (o piuttosto in concomitanza con) la diffusione delle reti di informazione. L’analisi di ciò che accade nelle grandi aree metropolitane urbane e nel mondo può aiutare a chiarire tale paradosso. Lo sviluppo delle PNR Popolazioni Non Residenti, provoca un indebolimento dei legami tra popolazioni e spazio e contribuisce alla situazione emergenziale nelle nuove forme urbane. Nella città tradizionale, su cui tutto lo stato attuale delle conoscenze della vita urbana è ancora in gran parte modellato, gli abitanti, o la popolazione che vive nella città ha coinciso quasi interamente con la popolazione che lavora nella città. I limiti della città hanno incluso entrambe le popolazioni su un unico territorio; per secoli, e fino agli ultimi tempi, questo spazio è stato circondato da mura ed è stato ordinatamente separato dal resto del territorio. La rivoluzione industriale non ha molto cambiato questa situazione; la produzione delle merci nel settore secondario richiede principalmente lo spostamento delle materie prime, delle merci manufatte e del capitale, mentre gli operai e gli imprenditori rimangono in gran parte concentrati nelle aree urbane. Soltanto il ventesimo secolo ha determinato un cambiamento radicale. Osservando la forma della città nella prima metà di questo secolo, notiamo come il pendolarismo abbia influenzato la scena urbana in termini di infrastruttura, di creazione di nuove e distintive zone residenziali e di cambiamenti radicali nei vecchi centri. Il risultato è ciò che definisco metropoli di prima generazione, caratterizzata da una città-nucleo e da vaste zone circostanti, principalmente basate su regioni urbane funzionali o su bacini di pendolarità giornaliera. Non c'è nessun dubbio che quel che è stato denominata “un’area metropolitana standard”, dopo un numero considerevole di studi, culminati nei tardi anni 60, sia, di fatto, una nuova razza di animale urbano. Come Norman Gras ha detto una volta, "la grande città, la città eccezionale…si è sviluppata lentamente verso la metropoli economica" (Gras, 1922, p. 181) ma la metropoli economica è appunto un nuovo spazio fisico non facilmente determinabile, senza particolari segni ai confini: nella città si entra, mentre nella metropoli si arriva. E spesso non riusciamo bene a cogliere la caratteristica della nuova forma urbana. Nel migliore dei casi, quando se ne parla, la si immagina come un’area del tutto autonoma dalla città, commettendo un grave errore, sottolineato con forza da Deyan Sudjic che critica vivacemente questa immagine errata. "immaginate - scrive Sudjic - il campo di forza attorno a un cavo dell'alta tensione, scoppiettante di energia e lì lì per scaricare un lampo a 20.000 volts in uno qualsiasi dei punri della sua lunghezza, e avrete una idea della natura della città contemporanea. (Sudjic, 1993: p.334). Il richiamo di Sudjic all’energia elettrica offre un felice accostamento per un raccordo con il tema delle nuove tecnologie. Infatti, di pari passo con la diffusione della motorizzazione privata, lo sviluppo delle teconologie dell'informazione ha dato una spinta decisiva alla formazione della nuova città. Da un lato cambiando l'organizzazione del lavoro che si deistituzionalizza e distribisce nello spazio, secondo un modello ormai largamente noto che va sottto il nome di economia post-fordista. Dall'altro per i cambiamenti indotti dalle "macchine per l'abitare". In parte si è trattato di un processo simile a ciò che è avvenuto in fabbrica, con l'avvento di macchine “time and labour saving”, cioè strumenti che servono a far risparmiare lavoro e tempo, soprattutto alle donne. Ora però questo tempo viene impiegato da beni “time consuming”, tutte quelle macchine che servono a consumare il tempo liberato e di cui noi ci riempiamo progressivamente la casa. Primo tra tutte il più grande mangiatore di tempo che è la televisione, ma anche l’alta fedeltà, le macchine fotografiche e il calcolatore e così via. Le abitazioni diventano più comode, ma contemporaneamente richiedono più spazio e a parità di reddito lo spazio maggiore si trova più lontano dai centri tradizionali. Così una nuova città, indistinta, confusa, temuta e poco conosciuta cresce attorno al nucleo tradizionale delle città industriali, si intrufola negli interstizi lasciati liberi dalla deindustrializzazione, li penetra e modifica esattamente come circa mille anni orsono la città medievale è sorta attorno ai castelli feudali in disuso, li ha inglobati e sostituiti dando vita alle città che rappresentano il modello urbano europeo originale, che oggi deve fronteggiare la nuova città diffusa, disordinata e disarmonica, ma "scoppiettante di energia". Va da sé che questo scoppiettio è costoso proprio in termini di consumo energetico. E, ancora una volta, la nuova struttura sociale non è irrilevante per la morfologia fisica, se si guarda l’area di Milano si può vedere che l’area metropolitana non è solo una più grande Milano. E’ una nuova struttura funzionale in forte interazione funzionale con la tradizionale città comunale.In conclusione, lo spazio non è stato ucciso, ma si sono aggiunti altri spazi la cui esplorazione è appena cominciata.

1. Di che cosa stiamo parlando. Come si viveva in città e come si vive oggi (nel territorio)? Vivere intanto significa svolgere alcune funzioni: abitare, lavorare, svagarsi, studiare, socializzare (scambiare risorse con gli altri). Semplificando molto possiamo dire che “un tempo” c’era una coincidenza spaziale tra queste funzioni e il luogo in cui esse si svolgevano: urbs e polis coincidevano. Il quartiere, l’unità di vicinato, e poi la città intera o il “comune”, erano ad un tempo lo spazio e il luogo nel quale queste funzioni della vita si esplicavano. Funzioni comuni di una vita “comunitaria”. Comunità che ha qui un senso preciso, indica una rete di relazioni dirette, principalmente “faccia a faccia”. Relazioni che perdurano - con molte variazioni e differenze - anche quando la città si ingrossa e diventa “grande”: per tutto il ‘900 l’aumento della popolazione e l’intensificazione di tutti i “fattori urbani” producono progressivamente nel mondo metropoli e megalopoli; e anche il nostro Paese non è esente da queste trasformazioni, seppure con misure certo differenti. Oggi molto è cambiato: le funzioni di vita - quelle sopra richiamate - si svolgono in uno spazio dilatato, rappresentato da geografie sempre diverse: alcune localizzate in quella che comunemente chiamiamo città, altre in un territorio incerto tra la campagna e la città, altre ancora addirittura non localizzabili pienamente, perché variano nel tempo e col nostro stile di vita, o semplicemente perché non sono localizzabili (le “comunità virtuali” ad es.). Ciascuno di noi può verificare, sulla base della propria esperienza, come quotidianamente e mensilmente la “mappa” della nostra vita sia costituita da percorsi “elastici”, che si allargano dal nostro luogo di residenza abituale, si spingono al lavoro, e via via disegnano un territorio che non coincide più con una città, ma con una ragnatela di luoghi e percorsi: questo è il territorio della dispersione insediativa.

2. Le cause che hanno condotto a questa condizione. Elementi (anche contraddittori) della democrazia: lo sviluppo della motorizzazione di massa; la promozione della mobilità e dell’accessibilità allo spazio come “diritto di cittadinanza”; l’aumento della ricchezza procapite (quindi la possibilità di spendere risorse crescenti in beni e servizi non “primari” - le vacanze, la palestra, la cultura, lo shopping ecc.). Elementi che hanno a che fare con lo sviluppo economico: l’investimento nel settore edilizo come “rifugio” costante del mercato e della finanza; la fiscalità degli enti locali fondata - progressivamente e insistentemente - sul metro quadrato di edificato (ici e oneri ad es.); la crisi della grande industria fordista (storicamente collocata in città o nel suo immediato intorno) a favore delle piccole imprese della subfornitura, dei sistemi locali (che trovano nel vasto territorio tra campagna e città, il loro “liquido amiotico”). Ancora, elementi legati alla sofferenza congenita delle città contemporanee, che spinge i cittadini ad andarsene: congestione e inquinamento; aumento del costo delle abitazioni; crisi del lavoro. Ma anche, infine, elementi che hanno a che fare con le tradizionali pulsioni localistiche italiane: ogni comune - per essere tale - vuole l’area industriale; ogni piccola città il suo aeroporto e la sua fiera; tutti vogliono che questi luoghi siano raggiungibili: e tutti chiedono infrastrutture, piccole e grandi opere, la cui somma non è mai collettivamente razionale.

3. Quali i costi. Lo sviluppo “diffuso” degli insediamenti urbani, delle reti, e in genere dell’antropizzazione a bassa densità ha alcune conseguenze negative, ben misurabili. Intanto l’aumento costante del “consumo di suolo” agricolo e/o naturale; una risorsa limitata, questa, che rappresenta il luogo di molteplici, simultanei e contrapposti interessi (perciò destinato ad avere valori vieppiù alti): quelli ecologici (il suolo per la ricarica delle falde, per la produzione di biomassa, per la conservazione del paesaggio ecc.); quelli economico-produttivi (agricoltura vs industria, agricoltura vs infrastrutture tecnologiche come elettrodotti e ferrovie ecc.); quelli, infine, relativi alla compagine sociale del territorio (il suolo come luogo nel quale si costruiscono relazioni, dove si conserva, corrompe e si estingue la “tradizione”, dove si mantiene o si trascura e si dimentica “la storia del luogo”). Altra voce di costo ascrivibile alla “dispersione” è quella sanitaria, in particolare riferibile all’incidentalità: un territorio brulicante di percorrenze erratiche, su strade inadatte all’intenso e dilagante uso prodotto con l’automobile privata, rappresenta - dati alla mano - il luogo in cui l’incidentalità stradale si manifesta in modo eclatante e drammatico; costo sociale ma anche costo economico: l’incidenza delle spese sanitarie per traumi da incidente sul PIL regionale è (forse inaspettatamente) una “zavorra” cui sarebbe molto opportuno porre rimedio. Terza voce di coso, il consumo di “energia” in senso lato: l’aumento dei chilometri percorsi procapite (e in genere della motorizzazione privata), sospinto dalla dispersione degli insediamenti, si traduce immediatamente nell’aumento di consumo di combustibile fossile per la trazione; ma nella bassa densità dello sviluppo insediativo si evidenzia anche - implicitamente - un progetto “dissipativo” degli insediamenti stessi, laddove è impossibile realizzare “economie di scala” - e dunque risparmi procapite - per la produzione di servizi, reti, tecnologie, che solo una “giusta concentrazione” potrebbe favorire.

4. Quali i vantaggi. I vantaggi della dispersione insediativa sono principalmente ascrivibili alla sfera privata. Sono cioè vantaggi che ciascuno realizza per massimizzare i propri interessi, indipendentemente da quelli della collettività: “vado ad abitare in campagna perché la città è inquinata, perché in campagna la mia famiglia vivrà meglio”. In questa affermazione non c’è un progetto sociale, c’è una (razionale e legittima) soluzione di un problema privato. E’ qua - probabilmente - che si può sintetizzare il complesso dei vantaggi. Non che nella città tradizionale “ciascuno pensi agli altri” prima di agire; è l’organizzazione del sistema urbano che “impone” - in qualche misura - la simultanea realizzazione di un interesse privato, senza danni per la collettività o addirittura realizzando un interesse collettivo.

5. Quali prospettive desiderabili. E’ verosimile o è auspicabile o possibile che la società possa evolversi pienamente e positivamente vivendo in un territorio dilatato, nel quale lo scambio quotidiano è diluito, discontinuo, distratto, indiretto ecc.? Cioè, possiamo credere che una comunità possa vivere senza contatto “fisico”? E poi, sono accettabili o governabili i costi di questo modello di sviluppo del territorio e della società? Basterà l’aumento impetuoso del costo del carburante ad imporre soluzioni drastiche per assetti territoriali più razionali?

CITTA'TERRITORIO FESTIVAL - FERRARA 08 _ Bernardo Secchi, Le forme della città, Ferrara 17 Aprile 2008

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1. Debbo confessare un certo imbarazzo nell’introdurre un festival della città e del territorio. Nonostante le apparenze cosa sia oggi la città, non questa o quella città, ma la città in generale, in Europa come in altri continenti, cosa sia la città e quali siano i suoi rapporti con il territorio non è facile a dirsi; tanto più è difficile a dirsi cosa saranno le città ed i territori nel futuro.
Non delle sue sole pietre, dei suoi monumenti o dei suoi edifici, delle sue strade e dei suoi giardini è fatta la città, ma anche dei suoi abitanti, di chi la frequenta, delle attività che vi si svolgono, delle relazioni che abitanti, visitatori ed attività intrattengono tra loro, con il resto del mondo e con lo spazio fisico che quotidianamente praticano, delle regole e delle istituzioni che per governare queste stesse relazioni si sono dati e di continuano modificano, dei discorsi e delle idee che la percorrono.

Ma d’altra parte, è anche importante ed urgente che si parli della città, specie in Italia ed in Europa, ma non solo qui; perché la città, luogo magico da sempre considerato luogo dell’incontro, della mescolanza e dell’integrazione di popolazioni, di pratiche, di idee e di culture differenti, sede di ogni innovazione tecnica e scientifica, sociale e politica, è anche e sempre più sembra divenire luogo ove si costruiscono profonde disuguaglianze, sempre più sembra divenire anche luogo della separazione, della emarginazione e della distinzione tra ricchi e poveri, ove sono all’opera sistemi di incompatibilità e di opposizione fisica, sociale e culturale ed è sotto la pressione di queste opposte tendenze che la città nel tempo cambia la propria forma.

2. Anche forma è termine difficile da trattare. In un bel saggio degli anni 70 W. Tatarkiewicz ne mostrava le diverse declinazioni. La forma, ad esempio la forma di una città, non si rappresenta solo nella figura che si staglia su di uno sfondo. Parliamo spesso e del tutto legittimamente di forme letterarie, ad esempio della forma romanzo, di forme musicali, ad esempio della forma sonata o della forma sinfonia, di forme istituzionali, politiche, di forme del discorso e delle relazioni con gli altri ed è a questo intero fascio di concetti che occorre fare riferimento quando si parla delle forme della città o di alcune sue parti, delle forme del paesaggio e del territorio, delle forme della società che li abita, delle relazioni sociali che vi si vengono a costruire o si può immaginare di costruire, delle forme delle istituzioni, dell’economia, del politico e del potere; delle forme delle espressioni artistiche, del discorso e dell’immaginario, senza stabilire tra le diverse forme alcuna gerarchia e priorità.

Due tesi: ne vorrei parlare alla luce di due principali tesi: _ la prima è che la storia della città è storia di forme e del loro mutare nel tempo, del loro sovrapporsi, intersecarsi e contaminarsi. Lento il movimento delle forme fisiche, più veloce quello dell’organizzazione sociale ed economica, volatile quello delle idee e dei discorsi; l’opposto di Baudelaire. In una prospettiva né evoluzionistica, né escatologica, criticamente lontani da una concezione lineare del tempo e dallo storicismo ottocentesco, ma lontani anche dall’organicismo e dallo strutturalismo che a lungo hanno dominato negli ultimi due secoli il pensiero sulla città, lontani dai presupposti riduttivi loro sottesi, la città ed il territorio sono il terreno ove forme diverse e con una differente genealogia più che con una diversa storia, competono tra loro; alcune dalla competizione essendo eliminate e divenendo desuete, altre godendo di improvvise, temporanee o durature fortune; molte, se non tutte, però permanendo, con diversi gradi di seduzione ed inerzia, non solo come tracce e testimoni della competizione, ma anche disponibili ad un ritorno. La città ed il territorio sono luogo ove ogni forma esercita un attrito sull’altra impedendone, rallentandone o facilitandone il mutamento, con ciò ostacolando la fine della competizione ed impedendo anche la fine della storia in un suo generale compimento. Tra le diverse forme non si dà una irreversibile selezione naturale: il passato può tornare, seppure sotto diverse sembianze, ciascuna forma migliorando qualcosa del passato, ma lasciandone aperte alcune contraddizioni. Ed è questa la ragione per la quale ogni progetto di città è da sempre destinato a divenire un progetto interrotto.

_La seconda tesi, che tratterò più a lungo, è che da qualche decennio stiamo forse assistendo ad un passaggio epocale, un passaggio quale quelli che si sono dati più volte nella storia della città. Un mutamento che potrebbe portare verso forme più avanzate di città, ma che non avviene simultaneamente e con eguali modalità in ogni luogo ed in ogni parte del pianeta e che, come tutti i cambiamenti, suscita reazioni opposte: di nostalgia del passato e di acritica adesione al nuovo ed è a questo passaggio che vale forse la pena di riflettere con calma abbandonando il chiacchiericcio quotidiano. E’ questo passaggio che vale forse la pena di cercare di capire e governare entro una visione di lungo periodo.

3. il senso del mutamento: più di dieci anni fa, introducendo Modelli di città, un bel libro da lui curato, Pietro Rossi si chiedeva se non fossimo “giunti al termine del ciclo storico della città, di un ciclo che ha preso le mosse, tra il quarto ed il terzo millennio a.C., nelle pianure fluviali del Vicino Oriente, dell’India e della Cina con quella che è stata definita la rivoluzione urbana”; se non fossimo “cioè prossimi alla scomparsa della città come forma caratteristica di insediamento e di organizzazione sociale”. Io non penso questo, ma penso che si possa essere prossimi non tanto alla scomparsa, quanto al mutamento delle forme della città così come per un lungo periodo, per un tempo in ogni modo assai più breve di quello evocato da Rossi, le abbiamo conosciute. Penso che da questo mutamento occorra prendere una certa distanza critica. Contrariamente a molti di quelli che si sono verificati entro il lungo periodo evocato da Rossi, esso non contiene in sé alcun aspetto drammatico, ma nondimeno non deve in alcun modo essere sottovalutato, perché dalla sua comprensione, dalle politiche e dai progetti che esso suggerirà può dipendere il benessere di gran parte della popolazione.

Nella storia della città si sono avuti mutamenti subitanei ed altri più lenti, mutamenti che hanno cancellato, con grande fatica e mai completamente, il passato ed altri che lo hanno incorporato, lo hanno fatto proprio assegnandogli nuovi ruoli e significati. Quello cui stiamo assistendo è, molto probabilmente, di questo secondo tipo ed è l’emergere negli ultimi decenni in tutti i paesi ed in tutti i continenti di ciò che Robert Bruegmann, in un recente libro, peraltro assai ma malamente contestato, indica come il “più importante fatto nello sviluppo urbano della nostra era”. L’emergere cioè di una forte dispersione della città su territori di inusitata dimensione; il rapido formarsi, in ogni parte del pianeta, di vaste Megacities o di ciò che molti si sono oramai abituati ad indicare con i termini di “città diffusa”. Megacity o Città diffusa sono termini più generali di sprawl. Ma occorre dire che si riferiscono a situazioni spesso tra loro molto differenti. Diversamente declinata nelle diverse situazioni, nel Veneto, piuttosto che in Lombardia, nelle Marche o nel Salento, nelle Fiandre piuttosto che in Bretagna o nel nord del Portogallo, a Taiwan piuttosto che nelle aree costiere e nelle aree interne della Cina, nel subcontinente indiano od in quello africano, la megacity ingloba spesso entro sé non solo i suburbi cui lo sprawl si riferisce o le più moderne favelas, la città dei ricchi e la città dei poveri, ma anche le tracce di una antica antropizzazione del territorio, la città antica come il villaggio con una sua altrettanto lunga storia, la città moderna e le sue periferie, gli insediamenti reclamizzati dal “vivere nella campagna, vicino alla grande metropoli ed al piccolo centro urbano”, la gated community, come l’edificazione delle lunghe file di casette unifamiliari con giardino, la piccola officina annessa all’abitazione, come la fabbrica di medie e grandi dimensioni, la zona industriale come l’area agricola, la casa rurale come la serra. Tutto accostato paratatticamente senza un ordine apparente entro territori sempre più porosi.
La dispersione, non solo nella città diffusa europea, non è sempre il risultato di un movimento centrifugo, di una esplosiva fuoriuscita dalla città, ma all’opposto è spesso l’esito di una progressiva densificazione di una ben più antica forma insediativa ed è indice di un mutamento radicale della condizione moderna; un mutamento che investe le forme di organizzazione sociale e politica, dei rapporti tra società e mondo degli oggetti, tra società e territorio. In Europa, come negli Stati Uniti, la dispersione è da molto tempo all’origine di inquietudini, si accompagna a speranze e suscita malintesi. Da secoli l’Europa è un continente fortemente antropizzato, costituito da una fitta rete di insediamenti dispersi. La costruzione, ancor prima del ‘500, di “ville” con propri parchi e giardini disperse nella campagna, ad esempio nell’area veneta o nelle Fiandre, segna una prima fase di appropriazione e densificazione di un territorio disperso. Le più ricche famiglie londinesi lasciano la città entro le mura disperdendosi nel West End già prima del grande incendio del 1666, ma soprattutto a partire da quell’evento dando inizio alla tradizione della English Country House. Marcel Roncayolo mostra come, dopo Colbert, le politiche urbane di Parigi e di Marsiglia oscillino tra le esigenze d’allargamento della compagine urbana ed il tentativo di frenare la dispersione delle classi più agiate nei territori circostanti. Alla metà del diciannovesimo secolo la costruzione di suburbs diviene fenomeno diffuso sia in Inghilterra, sia negli Stati Uniti ed accompagna la crescita delle classi medie. Marcel Smets e Bruno De Meulder hanno mostrato come la dispersione nelle Fiandre, forse la regione in Europa nella quale il fenomeno ha assunto le dimensioni più importanti e pervasive, sia, dall’inizio del secolo ventesimo, esito in larga misura di esplicite politiche tese ad evitare la formazione di grandi concentrazioni proletarie nelle maggiori città; tra queste politiche la costruzione dei peasant tramways, cioè la densissima infrastrutturazione ferroviaria e tranviaria, è forse la più importante. Ettore Conti, il grande patron dell’industria elettrica italiana, nei primi decenni del secolo ventesimo portava come argomento a favore di una sempre più spinta elettrificazione le possibilità che essa avrebbe offerto alla dispersione della produzione e delle residenze con conseguenze analoghe a quelle che ci si attendeva nelle Fiandre. Tra la fine degli anni ’10 e sino alla legge Loucheur del 1928 si sviluppa in Francia una periferia pavillonnaire, spesso abusiva, che darà luogo ai cosiddetti mal-lotis, famiglie che avendo acquistato un lotto di terreno senza sufficienti conoscenze del luogo si trovano poi a lottare con inondazioni e mancanza di infrastrutture adeguate alla stessa conservazione del loro investimento. Peter Hall interpreta la dispersione come inevitabile conseguenza della più elevata mobilità consentita dalla diffusione delle tranvie prima e dell’automobile poi. Come le tranvie, le “gondole del popolo”, avevano prodotto negli anni ’20 e ’30 le plotlands, lottizzazioni abusive che avevano invaso vaste parti del Sud-Est dell’Inghilterra e le regioni limitrofe alle maggiori città , l’automobile diviene, secondo Peter Hall, secondo molti studiosi e secondo un’opinione diffusa, la maggior responsabile della dispersione nell’ultima parte del secolo. Ma come per il telefono alcuni decenni prima occorreva che concreti attori ritenessero utile e conveniente separare gli uffici dalle fabbriche, così l’automobile ha consentito la dispersione perché nella società già operavano tensioni che portavano molti gruppi sociali a preferire l’abitazione dispersa a quella delle più dense aree urbane. Basti ricordare le pagine inziali di Living City di Frank Lloyd Wright e la politica a favore della abitazione unifamiliare del New Deal. Nel 1932 Thomas Sharp e la pubblicistica conservazionista del tempo descrivevano il Bungaloid growth con parole ed immagini identiche a quelle utilizzate cinquant’anni dopo per le Fiandre o per l’area veneta, ma “una ciminiera per ogni campanile” è stato uno slogan fortemente condiviso nel Veneto degli anni ’50 e ’60, una sorta di guide line per politiche del territorio che hanno trovato un largo consenso e che hanno fatto sì che ancor oggi ogni comune della regione, per piccolo che sia, preveda una o più aree industriali e che le norme urbanistiche siano costrette a regolarizzare le innumeri industrie sorte “fuori zona”. Negli anni ’90 Francesco Indovina prima, Stefano Boeri, Arturo Lanzani e Edoardo Marini poi descrivono le modifiche della struttura e dell’immagine del Veneto e del territorio metropolitano milanese prodotte dagli intensi fenomeni di decentramento produttivo, di dispersione delle attività e della popolazione prodottisi nei due decenni precedenti; Stefano Munarin e Chiara Tosi analizzano in dettaglio storia e caratteri della dispersione nel Veneto, una delle regioni italiane che, a partire dagli anni ’70, è all’origine dello studio dei nuovi caratteri del fenomeno urbano; Paola Viganò analizza storia, caratteri ed opportunità offerte dalla dispersione nel Salento, regione dell’estremo Sud dell’Italia, per la costruzione di una nuova forma di spazio abitabile, di una nuova modernità; Antonio Calafati studia la dispersione produttiva ed urbana nelle Marche e nell’Italia centrale, fenomeno che già aveva suggerito a Giorgio Fuà uno stretto legame con uno “sviluppo senza fratture” che si contrapponeva a quello della città industriale; Paola Viganò ed io stesso, in una ricerca in corso presso l’Università di Venezia, mostriamo come in un territorio costruito dall’acqua come quello veneto, la dispersione sia l’esito di un’infrastrutturazione basica del territorio costituitasi nel lunghissimo periodo e fatta di una fittissima rete di canali, canalette e scoline in parte destinate all’irrigazione, ma in gran parte al drenaggio di terreni poco permeabili, da una capillare rete viabilistica minore che alla rete dei canali si accosta ripetendone le forme e la densità e da una altrettanto minuta divisione dei campi e delle proprietà. Ma, nonostante la sua lunga storia la dispersione rimane fenomeno imbarazzante. Difficilmente racchiudibile in poche parole e concetti essa resiste ad ogni sforzo descrittivo. Negli anni ’80 una gran parte della letteratura, in Europa come negli Stati Uniti, ricorrendo a tecniche differenti, dall’εκφρασισ alla microstoria, all’inventario, al repertorio, al catalogo od al sampling, ha cercato di illustrare, attraverso “descrizioni dense”, “mappe in profondità” e mise en abîme, i caratteri della nuova situazione della città e dei territori europei e statunitensi. Ad esse hanno fatto seguito ulteriori descrizioni relative a situazioni diverse in altri continenti. E’ stato un ritorno all'esperienza come fonte primaria della co­no­scenza; un ri­torno antropocentrico che forse connota periodicamente tutta la storia della scienza occidentale. Di volta in volta declinato nella pro­spettiva ermeneutica, esisten­ziale o neo-romantica, esso sempre si accompagna alla presa di di­stanza dal carattere sistematico, decontestualizzato e cumu­lativo della razionalità tecnica, all’enfasi sulla complessità, all'esigenza di sua riduzione, mostrando forse la nostra inca­pacità di usare l'accumulazione della cultura specialistica per l'arricchimento dell'esistenza quotidiana. Ancor più radicalmente esso si accompagna al congedo dall’idea di verità pubblica che ha connotato la parte centrale del secolo ventesimo. Tutto ciò ha spinto ad integrare nella costellazione dei saperi rilevanti per lo studio ed il progetto della città discipline come l’etnologia e l’etnografia, le ricerche, ad esempio, e gli scritti di Ulf Hannerz, piuttosto che di Marc Augé o di Pierre Bourdieu. Ben consapevoli dell’impossibilità di costruire una copia esauriente del reale le ripetute descrizioni della città e del territorio di fine secolo hanno fatto emergere il frammento, lo specifico, il locale, la differenza irriducibile, mostrando che lo spazio della dispersione è costituito da costellazioni di materiali frammentari tra i quali diviene importante stabilire nuove relazioni. Le ripetute descrizioni delle diverse megacities e delle loro microscopiche variazioni hanno obbligato a prendere atto di una definitiva e generale trasformazione della società contemporanea; una trasformazione in corso da tempo, ma che solo negli ultimi decenni del secolo produce le proprie conseguenze sul modo di pensare la città e le sue politiche. Sino a tutta la prima metà del secolo ventesimo la società urbana, per non dire l’intera società emersa dalla rivoluzione industriale, è concepita come formata da grandi aggregati, classi o ceti al loro interno fondamentalmente omogenei nei comportamenti e nelle aspirazioni. La città è il luogo ove questi aggregati, muovendo specifiche retoriche, si incontrano e scontrano conquistando riconoscibilità, egemonia e potere. La maggior parte delle politiche urbane cerca di costruire pragmaticamente un ponte tra le esigenze dei diversi gruppi tra loro in competizione. Nell’ultima parte del secolo molte ricerche antropologiche, concentrandosi in particolare sulla cultura materiale, sostituiscono al naturalismo ottocentesco, un’interpretazione culturale dell’emergere di bisogni, desideri ed aspirazioni incomprimibili. Il cibo che si mangia, gli abiti che si indossano, l’impiego del proprio tempo e delle proprie risorse, il cinema, i libri, l’automobile e le vacanze, dice Mary Douglas citando peraltro quasi alla lettera una pagina di The Portrait of a Lady, romanzo che Henry James ha scritto nel 1881, sono opinioni relative alla forma di società che si desidera. Il sistema di valori di una società come le preferenze dei consumatori non possono essere presupposti, ma debbono essere osservati empiricamente. In una città quale quella europea di fine secolo, connotata da un forte pluralismo culturale, ciò sposta il centro dell’attenzione verso l’identificazione di differenti gruppi culturali, verso le diverse forme con le quali essi si esprimono nei confronti dell’ambiente e della città, verso i loro miti ed immaginari e le loro radici, verso la storia delle mentalità, verso la differenza e la sua storia, verso la lunga durata e le diverse dimensioni del tempo. Il multiculturalismo non può essere ridotto alle differenze etniche e religiose. La società urbana, non più interpretabile come formata da grandi aggregati omogenei, si disperde nell’innumerevole: in una dispersione di gruppi gelosi dei propri stili di vita dei quali la varietà di situazioni presenti nella città diffusa diviene concreta rappresentazione.

4. problemi ed opportunità: è del tutto evidente che la nuova forma di città pone una serie di gravi problemi anche se si ha spesso l’impressione che le lamentele e le critiche nei confronti della dispersione abbiano le loro radici non dette in una serie di presupposti estetici e metafisici piccolo borghesi, in una mancanza di conoscenza ravvicinata dei comportamenti dei diversi attori e gruppi sociali e delle loro ragioni. Ciò che manca nella riflessione odierna in ordine ad un fenomeno quale quello della dispersione, che nessuno riuscirà ad eliminare è una seria valutazione anche delle opportunità che essa offre o che spinge ad indagare. Solitamente la Megacity o città diffusa, che torno a ripetere è una forma di città estesa su territori di inusitata dimensione, una città porosa che include al proprio interno la città antica, quella moderna e le sue periferie, il villaggio con una lunga storia, la casa rurale come la “villa” e la casa unifamiliare con giardino, la piccola officina, come la grande fabbrica tecnologicamente avanzata, viene criticata su tre diversi terreni: - essa appare, in primo luogo, come la negazione del valore della prossimità, se non di valori comunitari che si rappresenterebbero nella città compatta. Una critica ben strana dopo più di un secolo di critica dell’anomia prodotta dalla città moderna, già per Durkheim antitesi della solidarietà sociale e dovuta al continuo mutamento sociale proprio di una moderna società industriale. Una critica non confortata dalle ricerche empiriche che riprende il pensiero degli “antilluministi” da Herder a J. Berlin. La coesione sociale non sembra essere superiore nelle parti compatte della megacity, nei centri urbani e nelle loro periferie, di quanto lo sia nella sue parti disperse; identità, comunità e tradizione sono concetti che non riescono a descrivere le società contemporanee dominate dalle retoriche della competizione e della comunicazione; - in secondo luogo, la megacity appare, giustamente, come il regno dell’automobile e quindi concausa dei rischi ambientali, anzi delle certezze di degrado ambientale cui il pianeta va incontro. Le relazioni tra la dispersione ed un sistema della mobilità prevalentemente affidato al mezzo individuale di trasporto non sono cosi chiare e limpide quanto si vorrebbe, ma è fuori di ogni dubbio che questa forma di città non avrebbe avuto modo di prodursi, perlomeno nelle dimensioni odierne, senza il largo privilegio e sostegno che da tutti i paesi ed a partire dai primi decenni del secolo ventesimo è stato dato alla produzione e diffusione dell’automobile come principale simbolo del benessere. E’ dubbio che la produzione di gas serra e di polveri sottili sia nelle aree della dispersione più elevata che nelle aree congestionate della città compatta. Le ricerche empiriche mostrano che le relazioni tra aree della dispersione e centri congestionati non sono più quelle tradizionali del movimento pendolare tra centro e periferia. Ma il problema deve essere posto forse entro un quadro differente e di lungo periodo. La forma città è stata spesso, non sempre, all’origine di grandi ondate di progresso tecnico. Non sempre: la rivoluzione industriale, ad esempio, quasi ovunque non è stata inizialmente un fenomeno urbano ed anche oggi è dubbio che la maggior parte dell’innovazione tecnologica si produca al centro delle grandi aree urbane. Ma sono i vantaggi della concentrazione urbana, della divisione del lavoro, dello scambio tra settori di attività diversi che hanno sospinto lo sviluppo delle reti ferroviarie; è sicuramente la concentrazione urbana che ha spinto ad immaginare e realizzare il trasporto pubblico. Metropolitane e tramways sono figli della situazione contraddittoria nella quale si era venuta a trovare le città moderna alla metà del diciannovesimo secolo. Sino all’inizio degli anni ’60 del diciannovesimo secolo a Londra, come in ogni altra città, la gran parte della popolazione si recava al lavoro a piedi; è l’ammassarsi di una vasta classe operaia ed impiegatizia nella grande città che ha spinto, alla metà del secolo, Charles Pearson a progettare e realizzare il primo tratto di ferrovia sotterranea tra Fleet Valley e Farrington. Negli stessi anni sono i problemi igienici connessi alla concentrazione urbana che spingono Eugène Belgrand a concepire ed a mettere a punto nell’Ecoles des Ponts et Chaussées il grande sistema fognario e di distribuzione dell’acqua di Parigi, sospingendo una grande ondata di lavori pubblici che, come le ferrovie, ha avuto enormi ricadute su altri settori produttivi. Ed ancora è l’opportunità di dividere spazialmente gli uffici delle direzioni aziendali e gli impiegati dalle fabbriche e dai luoghi del lavoro operaio che verso la fine del secolo spinge ad utilizzare in modo estensivo una scoperta precedente quale il telefono. E’ il suburb che sospinge la diffusione della televisione. Negli ultimi decenni del secolo ventesimo la mancata osservazione dell’emergere di una nuova forma di città, da un lato e l’enfasi posta sul ruolo delle telecomunicazioni e delle città globali, dall’altro, ha posto nell’ombra uno spazio del flussi assai più concreto e tangibile, che appartiene all’esperienza quotidiana della maggior parte della popolazione, smorzando la spinta verso il progresso tecnico del mezzo individuale di trasporto, verso una nuova concettualizzazione delle sua infrastruttura di base, un progresso che tutti peraltro possono immaginare essere a portata di mano e che, a causa non fosse altro che della crisi petrolifera, non tarderà a diffondersi. Le politiche di tutti i paesi spingono all’opposto verso una sempre maggior diffusione dell’automobile quale essa è oggi. Uno dei problemi fondamentali del progresso tecnico riguarda il tempo: quando le innovazioni maturano e quando vengono adottate, il tempo che intercorre tra innovazione e sua adozione e le ragioni che lo determinano. Il telefono è un esempio di grande ritardo dell’adozione rispetto l’invenzione; internet è un caso opposto. Ora le nuove forme della città, in tutte le loro articolazioni, pongono una domanda assai seria: pensiamo sia più facile e prossimo un cambiamento delle tecniche della mobilità, o che sia più vicina a noi nel tempo e più facile una modifica della forma di città che, radicata in un tempo più antico, è prepotentemente emersa nella seconda metà del ventesimo secolo e della quale ci siamo accorti con grave ritardo? Nessuno è profeta, ma tra cinquant’anni potremmo pentirci di aver dato a questa domanda la risposta sbagliata. Perché la nuova forma di città, con la sua grana larga, con la porosità che sempre più ne connota le parti più compatte ed antiche, con i suoi vasti spazi interclusi, inedificati, abbandonati o tutt’ora destinati all’agricoltura, offre grandi opportunità per politiche che si confrontino seriamente ed in modo complessivo con i problemi ambientali. Abbacinati dai soli problemi della mobilità spesso ce le dimentichiamo. La gran parte del pianeta, come il nostro paese, ha seri problemi di gestione delle acque, di loro raccolta, conservazione ed intelligente distribuzione. Il che implica un rovesciamento delle tecniche tradizionali di gestione delle acque: rallentamento del deflusso delle acque dei fiumi, costruzione di vasche di laminazione, di bacini di stoccaggio delle acque piovane, riutilizzo delle acque reflue. In territori fortemente antropizzati come l’Europa ed il nostro paese, non saranno grandi bacini la soluzione, ma numerosi bacini di minori dimensioni: La gran parte dei paesi ha inoltre la necessità di aumentare il manto vegetale, misura che si accompagna alla gestione delle acque. In territori fortemente antropizzati come l’Europa non saranno grandi foreste la soluzione, ma una rete di aree boscate estesa ed intelligentemente disegnata per assicurarne la compatibilità sia con le aree agricole, sia con quelle urbanizzate. Gestione delle acque e aumento del manto vegetale costruiscono l’opportunità di un grande progetto che non proceda in via incrementale, ma il coraggio della costruzione di un nuovo paesaggio; un progetto che richiede rigore, coerenza e perseveranza. Si tratta di ridisegnare l’intero paesaggio e la sua architettura, come è stato per il ridisegno del paesaggio toscano da parte degli agronomi del Granducato, come prima era stato per il ridisegno del paesaggio della bassa Lombardia con le marcite e le risaie, come è stato per il ridisegno del paesaggio olandese e di molti altri paesaggi europei e di altri continenti; un paesaggio che nasce da una nuova relazione tra popolazione e territorio mediata, come per il passato, da una nuova fase delle tecniche. - perché, in terzo luogo, la nuova forma di città, soprattutto in alcune sue parti come le periferie moderne o le aree della più forte dispersione e delle minori densità, viene criticata sulla base di considerazioni estetiche. Tutti sanno quanto Siena ed il paesaggio toscano siano belli, quanto siano belle Ferrara o Montichiello, Utrecht, Bruges, come Anversa, Kyoto come Pietroburgo, come Savannah in Georgia o Charleston nel South Carolina. ma pochi fanno uno sforzo analitico per dire di cosa siano fatti quei paesaggi e quelle città, di quali materiali essi siano composti, quali si rappresentino nelle loro grammatiche e sintassi compositive. Prevale nel giudizio estetico corrente un idealismo antistorico, un culto della memoria, il mito della continuità. Eppure ciò che ci colpisce a Siena, come a Venezia ed in molte altre città anche moderne che giudichiamo belle, è lo straordinario deposito di intere generazioni che hanno aggiunto o tolto qualcosa alla loro compagine, che l’hanno lavorata, trasformata, modificata attraverso intrusioni e sostituzioni. E’ lo spessore di questo palinsesto urbano e territoriale che ce le rende amiche. Nei suoi primi cinquant’anni di vita Siena era certamente meno seducente di quanto ce l’abbia consegnata la sua storia successiva e se osserviamo con attenzione cosa sta avvenendo oggi nelle periferie urbane, la numerosità di progetti che inserendosi nella loro porosità ed entro una loro generale densificazione funzionale e semantica, inserendosi nelle situazioni esistenti e trasformandole, propongono una nuova lettura del loro spazio attraverso l’individuazione dei caratteri e dei ruoli specifici che possono essere assegnati ad alcuni luoghi, possiamo immaginare che lo stesso fenomeno si produrrà in futuro anche nelle aree di maggior dispersione dispersione. La città non si costruisce in un giorno e la città diffusa, la megaciy contemporanea, può costruire oggi l’infrastruttura di base di una nuova forma di città. Cosa della quale si sono accorti per ora solo gli immobiliaristi che propongono di vivere nella campagna, vicino al grande centro metropolitano ed al piccolo centro urbano. 5. nuove utopie: la nostra incapacità nel cogliere appieno le opportunità che le nuove forme della città e della società ci propongono, la nostalgia per le forme del passato, il tentativo di ripeterle come nel neo-haussmanesimo e nel New Urbanism, dimentichi che la storia mai si ripete se non come tragedia o farsa, la giusta critica delle sue architetture ove si rappresenta l’immaginario di attori privi di memoria, troppo legati al presente ed alle sollecitazioni della società della comunicazione, appare a me come un indicatore del nostro disorientamento, della nostra mancanza di solidi strumenti critici, della nostra riluttanza ad esplorare progettualmente orizzonti più lontani. Perché è di questo che si tratta: le diverse forme di città che nel tempo si sono succedute, trascinandosi od ostacolandosi a vicenda, sempre sono state figlie di un progetto; di un progetto politico e sociale divenuto egemone perché capace di interpretare e dare spazio alla frontiera più avanzata della società del proprio tempo e che spesso è stato annunciato da un progetto della forma fisica della città e del territorio. E’ stato così per il progetto di magnificenza civile dell’illuminismo, come per la grande unificazione linguistica della città borghese ottocentesca. E’ stato così nella prima metà del ventesimo secolo quando il progetto della città ha dato forme concrete alle istanze di welfare individuale e collettivo prima della costituzione del Welfare State. Ciò che ci manca è proprio questo. L’utopia è forma del pensiero e del discorso specifica della cultura occidentale ed europeo in particolare. Se dovessi dire cosa connota la cultura europea nella sua lunga storia direi che il pensiero utopico è uno dei suoi elementi più importanti. L’utopia è forma estrema dell’immaginazione che ciclicamente torna nella storia europea, che non la percorre in modo omogeneo e continuo e ciò che diviene importante è cogliere i momenti nei quali riemerge e le ragioni per la quali riemerge; le ragioni che fanno si che ad ogni emersione, pur conservando memoria delle precedenti versioni, essa si presenti con caratteri nuovi e diversi. L’utopia si colloca sempre in un punto di crisi e nel punto di passaggio tra un periodo storico ed il successivo, quando i caratteri di ciò che sta per avvenire non sono ancora chiari ed è sempre contestazione del potere. L’Utopia di Thomas More, ad esempio, della quale ci si sofferma solitamente a descrivere in modi superficiali la parte finale, la città sull’isola di Utopia senza porre attenzione alla prima parte che costituisce invece una serrata critica di diversi aspetti dell’organizzazione del potere nell’Inghilterra del tempo, si situa alle soglie della costituzione dello Stato Nazionale moderno. Le utopie dell’inizio del diciannovesimo secolo nelle due versioni del fourierismo e del saint-simonismo, si situano alle soglie dell’affermazione dello “stato disciplinare”, per usare le parole di Michel Foucault e così le utopie dell’architettura moderna, non solo dei Ciam, si situano al centro di conflitti che occuperanno tutta la prima metà del ventesimo secolo nei quali si rivela la crisi dell’imperialismo degli stati nazione ed alle soglie di tremende dittature e di un mondo globalizzato dominato in modo contraddittorio da un lato, dalla progressiva omologazione delle forme, di tutte le forme, non solo di quelle della città, e, dall’altro, dalla progressiva individualizzazione della società. Questa lettura dell’utopia, delle sue forme e del suo ciclico ritorno è fondamentale per comprendere che le diverse forme della città, come delle istituzioni, del politico, delle arti e del discorso, nella reciproca competizione si osservano e, come in ogni competizione, si copiano o in modi più sofisticati, procedono “per riprese, adattamenti, trasposizioni, inversione di modelli e di regole precedenti”. E’ per questo che in ogni forma della città, anche quando intenzionalmente destinata a costruire il futuro, possiamo riconoscere tracce del passato e del contemporaneo; è per questo che ogni progetto complessivo sempre ci appare un progetto interrotto. Nell’attenzione al recupero e ridisegno degli spazi pubblici nella Barcellana di Oriol Bohigas negli anni ’80, dopo la lunga crisi della dittatura, nella più recente attenzione alle dimensioni concrete, fisiche del welfare individuale e collettivo di Copenhagen, dopo la profonda crisi dell’inizio degli anni ’90; nell’attenzione alla ricostruzione di un’immagine e di una forma della metropoli di Anversa entro una più vasta megacity dispersa che si estende da Bruxelles a Rotterdam, dopo la profonda crisi amministrativa e politica alla svolta del secolo, possiamo riconoscere i germi, solo i germi, di una nuova utopia concreta che cerca appunto di interpretare la frontiera più avanzata della società contemporanea e che si annuncia, come per il passato, con un progetto della forma fisica della città e del territorio. Più che dei mali della città è forse del suo progetto che dovremmo parlare e discutere.